Se c’è un settore che sta facendo davvero passi da gigante nel mondo dell’energia e delle rinnovabili è quello dello storage, l’accumulo energetico. Una vera e propria necessità, visto che per far funzionare la rete elettrica nel modo giusto, e immettere energia quando vento o sole o acqua non sono sufficienti, è fondamentale disporre di una riserva strategica.
Un discorso che vale anche a livello “individuale”, quando i prosumers devono riversare l’eccesso di produzione elettrica dei loro pannelli fotovoltaici in un sistema in grado di restituirla quando serve. Nei giorni scorsi a KEY - The Energy Transition Expo di Rimini è stato tra l’altro ricordato dal GSE che a fine 2023 nel nostro Paese c’erano ben 357.000 sistemi di accumulo collegati a impianti fotovoltaici.
Le tecnologie principali oggi adottate in Italia, si legge nel Rapporto Althesys, sono i tradizionali impianti di pompaggio idroelettrico ‒ 22 misti e 129 puri, con una potenza massima di circa 7,6 GW e una capacità di stoccaggio di 53 GWh, di cui l’84% riferita ai 6 impianti maggiori (4 al Nord e 2 al Sud) ‒ e quelli più recenti, basati su batteria, in gergo BESS (Battery Energy Storage System).
Secondo i dati raccolti dagli analisti di EUPD Energy Research, in Italia a fine 2023 complessivamente sono installati circa 3,9 GWh di accumulo per batteria. La stragrande maggioranza di questi sistemi però è di piccola taglia, inferiore ai 20 kWh, il che significa che quelli grandi, i cosiddetti utility-scale, sono ancora poca cosa. Il PNIEC dice che nel 2030 dovremo arrivare complessivamente a 22,5 GW di installato, di cui almeno 11 di grandi e grandissime dimensioni.
I prezzi delle batterie
Non sarà una passeggiata. Anche se, però, bisogna dire che la riduzione dei costi cui stiamo assistendo è impressionante: una recente analisi di BloombergNEF dice che nel 2023 un pacco batteria agli ioni di litio costava 139 dollari per kWh, il 14% in meno rispetto al 2022, il 90% in meno rispetto al 2010. La previsione è che il prezzo continuerà a scendere di un altro 4% nel 2024, per poi calare sotto quota 100 dollari per kWh entro il 2027.
Peraltro, quello delle batterie è un settore in cui c’è tantissima ricerca, con risultati molto promettenti in materiali diversi dagli ioni di litio, che sono i sistemi più diffusi, e che lo resteranno molto a lungo. A Rimini molto si è parlato della sperimentazione di batterie al magnesio, agli ioni di sodio, agli ioni di alluminio, i sistemi zinco-aria, o ferro-aria. Tutte tecnologie che fanno ben sperare dal punto di vista delle prestazioni, ma che vanno perfezionate e rese disponibili per la produzione industriale.
In Cina, in particolare, si sta sviluppando un modello di batteria al litio-ferro-fosfato che sembra in grado di diventare la soluzione vincente per le automobili e la mobilità elettrica, dove servono batterie di massa ridotta e in grado di sopportare lo stress di continue richieste di potenza e azioni di ricarica nel corso della guida. Di recente due grandissime aziende cinesi, la CATL e il gigante automobilistico BYD hanno annunciato che le loro batterie litio-ferro-fosfato costeranno quest’anno intorno ai 56 dollari per kWh, quasi la metà di quelle agli ioni di litio.
I sistemi di accumulo per la produzione di rinnovabili
Diverso è il discorso per i grandi sistemi di accumulo destinati ad affiancare la produzione di rinnovabili. Qui non c’è stress, non serve sprigionare velocemente potenza, e non c’è neanche un problema di dimensioni: occorre piuttosto ridurre il costo per ogni ciclo di ricarica, e assicurare almeno 10-15 anni di funzionamento efficiente, visto il costo iniziale dell’investimento.
Come scritto nel rapporto Filiere del Futuro di Fondazione Symbola presentato a Rimini, a parte le tradizionali batterie nei grandi campi fotovoltaici di estese dimensioni, una prospettiva è quella delle batterie redox-flow. Nelle batterie di flusso redox ‒ per adesso molto costose, visto che si usano materie rare come il vanadio ‒ gli elettrodi sono in forma liquida e non solida. Dunque, sono molto più grandi, pesanti e ingombranti, ma possono essere affiancate creando sistemi ad alta densità di energia, capaci di mantenere oltre l’80% dell’efficienza anche quando sono poco cariche e il 100% della capacità originale.
Un’altra tecnologia interessante sono le cosiddette batterie ZEBRA (Zero Emission Battery Research Activities): questi sistemi sono costituiti da celle nickel-sodio cloruro, operanti a elevate temperature (circa 270-350 gradi), racchiuse in un contenitore termico, e che utilizzano un tubo ceramico come elettrolita solido.
I sistemi di accumulo non elettrochimici
E sempre per le utility-scale, naturalmente, ci sono i sistemi di accumulo non elettrochimici, senza batterie. Già oggi sono in funzione i sistemi di pompaggio. Quando c’è bisogno di energia, da un bacino di acqua sopraelevato, l’acqua scende a valle attraverso una diga e le turbine, generando elettricità. Quando l’energia ‒ magari di parchi eolici, magari di notte ‒ non serve alla rete e si vuole accumularla, la si adopera per pompare l’acqua verso l’alto riempiendo di nuovo il bacino idrico.
Più o meno la stessa logica dei sistemi di accumulo ad aria compressa (CAES): l’elettricità rinnovabile in eccesso solleva dei pesi comprimendo aria, all’interno di ambienti sotterranei, e quando la rete chiede energia i pesi scendono generando nuova elettricità. In Cina è stato annunciato il più grande progetto CAES in termini di megawattora: un impianto da 300 MW/1800 MWh nella provincia settentrionale del Gansu.
Oppure, ancora, c’è la proposta italiana, dell’azienda Magaldi, dello storage con la sabbia: moduli isolati che contengono comune sabbia silicea, riscaldata a temperature superiori a 600 gradi. Con l’energia in eccesso si riscalda a temperature molto alte la sabbia contenuta in un grande silos, che conserva a lungo il calore, per poi rilasciarlo per generare vapore o aria calda per usi industriali o per generare nuova elettricità via turbine a vapore. Una gran bella idea.
Immagine: Envato