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Qualche anno fa lessi di alcune case su un’isola danese, ricoperte da spessi strati di alghe marine e definite le “case del futuro di 300 anni fa”. Le abitazioni di Læsø sembrano uscite direttamente da una fiaba, ma i loro tetti, risalenti al diciassettesimo secolo, sono nati per pura necessità, in un’epoca in cui gli ultimi alberi dell’isola erano stati bruciati per alimentare i forni adibiti alla produzione del sale.

Nonostante il tempo trascorso, poco è cambiato: continuiamo a deforestare a ritmi senza precedenti per alimentare l’industria. Nel frattempo, i materiali bio-based sono diventati una frazione sempre più esigua del consumo globale di risorse, man mano che le società hanno privilegiato metalli e minerali per costruire infrastrutture e alimentare la produzione. Oggi, però, sembra che questi materiali stiano tornando in auge, passando da una nicchia legata ai consumatori più “consapevoli” a un’adozione più ampia nei settori industriali, dagli edifici in legno agli imballaggi in canna da zucchero. Tuttavia, il fatto che la biomassa sia rinnovabile non la rende automaticamente sostenibile o circolare: la sua estrazione rappresenta un enorme fattore di emissioni e di degrado degli ecosistemi. È fondamentale, quindi, procedere con cautela nella transizione bio-based.

Il Circularity Gap Report Textiles, recentemente pubblicato, mette in luce un dato forse controintuitivo: un passaggio su larga scala dalle fibre sintetiche a quelle “naturali”, come cotone, lino e viscosa, potrebbe avere un impatto negativo su diversi aspetti ambientali. Questi materiali richiedono un consumo di suolo nettamente superiore rispetto alle alternative sintetiche, sebbene queste ultime siano generalmente a maggiore intensità di carbonio e di materia.

Le bioplastiche possono presentare problemi simili: spesso sono prodotte utilizzando colture dedicate esclusivamente a questo scopo, e la loro produzione su larga scala richiede vasti terreni agricoli, entrando in diretta competizione con la produzione di cibo. Inoltre, sono diventate un incubo per il greenwashing: colossi come Coca-Cola hanno lanciato prodotti come la “PlantBottle” che, senza sorpresa, è composta solo per il 30% da bioplastica.

Anche il legname per le costruzioni può sollevare preoccupazioni simili. Il World Resources Institute ha recentemente osservato che qualsiasi transizione verso il “legname di massa” potrebbe avere effetti negativi rilevanti sulle foreste mondiali, preziosi pozzi di carbonio e riserve cruciali di biodiversità. Quindi, quale direzione prendere? Forse i danesi del diciassettesimo secolo avevano già imboccato la strada giusta: quando la terra scarseggia, guardate al mare. I loro tetti realizzati con alghe marine erano resistenti al fuoco, alla putrefazione e ai parassiti, traspiranti ma dotati di proprietà isolanti paragonabili a quelle della lana minerale, incredibilmente duraturi e a impatto relativamente basso. Se raccolte e utilizzate localmente, varie tipologie di alghe marine sono neutrali dal punto di vista delle emissioni di carbonio, crescono rapidamente e non richiedono fertilizzanti.

E se l’idea di eccentrici tetti di paglia che svettano sopra moderni grattacieli di vetro non vi convince, niente paura: l’erba marina di Læsø viene oggi trasformata in pannelli prefabbricati utilizzabili come isolanti per facciate e tetti. Nel frattempo, le alghe marine stanno trovando applicazioni sorprendenti in una vasta gamma di settori: dai mangimi per animali agli imballaggi, dai prodotti farmaceutici ai tessuti e persino ai biocarburanti. Anche l’impiego di prodotti di scarto o “rifiuti” sta mostrando grande potenziale: bucce di frutta e foglie di mais sono già state convertite in materiali per imballaggi e tessuti biodegradabili.

Ma anche queste non sono soluzioni perfette, e la scalabilità presenta sfide significative: la raccolta intensiva di alghe potrebbe danneggiare la biodiversità degli ecosistemi marini, a meno che non vengano introdotte presto pratiche responsabili. Inoltre, i rifiuti organici non sono disponibili in quantità sufficienti per soddisfare la domanda di produzione su larga scala. Trasformare tutti i rifiuti in nuovi prodotti potrebbe persino entrare in conflitto con i processi naturali di decomposizione, fondamentali per la salute del suolo.

La transizione verso materiali bio-based non è una panacea: deve essere integrata all’interno di un modello di economia circolare, in cui le risorse rinnovabili sono gestite in modo sostenibile, l’energia rinnovabile alimenta i processi di lavorazione e produzione, e i materiali bio-based possono essere restituiti efficacemente alla terra al termine del loro ciclo di vita.
La lezione più importante? Non esiste un materiale miracoloso che possa salvarci senza una drastica riduzione dei consumi.

 

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Immagine: Envato