“Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.” Così scrive Paolo Cognetti nel romanzo Le otto montagne. In questo pensiero ritroviamo uno degli obiettivi principali di questo numero di Materia Rinnovabile: il miglior modo per salvaguardare la biodiversità è imparare a usarla con buon senso e, così facendo, darle un nome, associarla a un’azione, a un modo di essere, a un paesaggio che ci assomiglia.
In effetti, “scrivere di montagna e di economia significa occuparsi di come si vive, in alto” ci ricorda Giorgio Kaldor nell’intervista all’antropologa norvegese Erika Fatland. “Vuol dire mettere al centro le persone e le loro relazioni”, agire in maniera eco-efficace, evitando di interrompere connessioni tra unità ecologiche, e cercando invece di farne parte con una funzione attiva ma non invasiva.
Oggigiorno, partecipare alla rigenerazione del tessuto ecologico e sociale che caratterizza un contesto montano è un’alternativa possibile al lavoro in città. Antonella Totaro ne parla nell’articolo La montagna digitale: lavorare con un altro passo. Dai Pirenei alla Transilvania, dalle Ande fino all’utopia di un castello francese, sempre più nascono luoghi che operano per il cambiamento, dove vengono valutati e testati nuovi modelli sociali ed economici. D’altronde il thinking outside the box sta diventando un fattore necessario ad arginare “silenziosi genocidi culturali”, come sta accadendo in Tibet, e, in tal senso, l’unico sentiero percorribile è quello di stimolare la creatività, ripensando la produttività lavorativa lontano da schemi e orari, mettendo in discussione abitudini consolidate che a volte sono il vero ostacolo a uno sviluppo sostenibile.
È una questione di istruzione, di pensare in maniera sistemica, come viene suggerito nel quadro europeo delle competenze (Green Comp) in materia di sostenibilità per il raggiungimento del Green Deal europeo. Di essere consapevoli che siamo un unico sistema interconnesso, anche se non ce ne accorgiamo, non ci pensiamo, e immaginiamo che problemi complessi come quello del cambiamento climatico siano distanti della nostra vita quotidiana. Ma in aree di montagna il cambiamento climatico si sente eccome, e ha il volto di ghiacciai millenari che lasciano spazio a giovani pietraie cosparse di rifiuti, come le 50 tonnellate accumulate al Campo Base dell’Everest di cui parla Ana Birliga Sutherland nel suo articolo su come il turismo sta cambiando le montagne, o di rifugi che devono essere abbattuti a causa dello scioglimento del permafrost, come è accaduto al rifugio Rothornhütte, descritto da Francesco Rasero.
Durante l’anno, più di 375 milioni di turisti visitano le montagne, rappresentando il 16% del turismo internazionale, un flusso di persone, materia ed energia che se mal gestito ha un impatto importante su ecosistemi che andrebbero tutelati. “Forse la soluzione più circolare di tutte è quella di imporre ai visitatori l'etica del non lasciare traccia” o di limitare l’accesso ai siti come sta accadendo per il monte Fuji in Giappone. Ma sono scelte che devono essere condivise perché, ad esempio in Europa, stiamo parlando di una dinamica che porta economie a quel 12,1% della popolazione che vive di turismo e agroalimentare in alta quota, come ci racconta Sandy Fiabane nell’articolo sull’agricoltura in montagna. Inoltre, se consideriamo ad esempio che solo nella provincia di Trento ben 90.000 ettari offrono spazio a 640 malghe censite − di cui 382 sono attive e ospitano circa 22.615 bovini, circa 39.000 ovicaprini e circa 1.400 equini − capiamo l’importanza di questi “baluardi di resilienza” per usare le parole di Emanuele Bompan, nel suo articolo sugli alpeggi trentini.
L’equilibrio tra ecosistemi naturali, artificiali e le dinamiche turistiche passa necessariamente attraverso la gestione sostenibile di questi spazi, un’infrastruttura rurale che al pari di quella urbana deve cominciare ad assumere il ruolo di tematica rilevante sul fronte politico, poiché le aree svantaggiate di montagna stanno crescendo in paesi quali Grecia, Spagna, Romania, Francia, Italia e Croazia, confermando un declino già in atto.
Grazie al lavoro di tante agenzie ONU e non solo, come ci racconta Rosalaura Romeo della FAO nell’intervista a lei dedicata, nell’ultima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite è stata riconosciuta ufficialmente la “questione montagna”. A parer mio, è un risultato frutto di un’emergenza che si sta palesando in tutta la sua violenza e che ci deve far riflettere, citando nuovamente Paolo Cognetti, su come il passato sia a valle, mentre il futuro a monte.
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Immagine di copertina: Kyle Johnson, Unsplash