Il noleggio di capi di abbigliamento è uno dei modelli di business circolari che potrebbero rendere l’industria della moda un settore più sostenibile. Uno studio finlandese ha tuttavia provato a calcolarne l’impronta di carbonio, mettendone in discussione gli effettivi benefici ambientali.

Un guardaroba sterminato, dall’abito di alta moda alla t-shirt, dallo smoking agli scarponi da montagna; una scelta inesauribile di outfit, sempre nuovi e sempre diversi, a cui attingere per ogni occasione. Non si tratta del sogno di un insaziabile fashion blogger, ma della concreta e accessibile possibilità offerta da un modello di business circolare che da qualche anno si sta affermando anche nel settore dell’abbigliamento: il noleggio.
L’
abito-come-servizio non è ovviamente solo un modo per soddisfare la voglia di cambiare look. Andare oltre il possesso del singolo capo di abbigliamento, sfruttandone il più possibile la vita utile attraverso lo sharing, significa ridurre la produzione di nuovi vestiti e quindi risparmiare risorse, evitare sprechi, inquinamento ed emissioni. In una parola, vuol dire contribuire alla sostenibilità del settore.
Ma a contraddire quella che pareva una deduzione piuttosto intuitiva è arrivato la scorsa estate lo
studio di un gruppo di ricercatori finlandesi, che sono giunti a una conclusione inaspettata: in termini di emissioni di carbonio, noleggiare un paio di jeans sembrerebbe più impattante che comprarli e poi buttarli semplicemente in discarica.
Ovviamente le cose sono un po’ più complicate di ciò che i titoli di molti giornali hanno annunciato qualche mese fa, gettando discredito su un modello di business ancora acerbo e sicuramente migliorabile, ma dal grande potenziale. La ricerca finlandese e il clamore suscitato hanno avuto tuttavia il merito di porre implicitamente una domanda a tutti gli addetti ai lavori:
fino a che punto è possibile fidarsi delle metriche che abbiamo per misurare la sostenibilità e la circolarità?

Rental is the new black

Nel giugno 2021 Carrie Symonds è balzata all’onore delle cronache non solo per il suo matrimonio con Boris Johnson, ma anche per essersi procurata sia l’abito da sposa che gli eleganti outfit sfoggiati al G7 tramite un servizio di clothing rental. E non è certo l’unica celebrità a ricorrere al noleggio per occasioni mondane e a vantarsene poi pubblicamente.
Se i tabloid inglesi sono uno specchio della società, gli abiti della neo First Lady britannica la dicono allora lunga su quanto stiano cambiando i modelli di consumo della moda. Il noleggio, in particolare, è l’osservato speciale di questi ultimi anni. Nonostante la battuta d’arresto dovuta alla pandemia (prevedibile, visto che pantaloni della tuta e ciabatte sono il look andato per la maggiore in questo periodo), il mercato dell’abbigliamento in affitto è lanciato ora in un
trend di crescita che, secondo alcuni osservatori, vedrà un incremento del 10% annuo, arrivando a superare il valore di 7 miliardi di dollari nel 2025 (fonte: Statista.com).
I
modelli di noleggio sono vari: ci sono negozi fisici e piattaforme online; servizi di affitto per abiti da cerimonia e pezzi unici di alta moda o shop che offrono vasti assortimenti di magliette; ci sono formule di abbonamento che consentono di scegliere un certo numero di capi ogni mese o noleggi una tantum; e c’è anche chi si è inventato una specie di social network che mette in contatto i possessori di vestiti con i noleggiatori. Si tratta, in ogni caso, di una formula conveniente sia per gli utenti che per le aziende, che in linea di massima hanno la possibilità di moltiplicare i flussi di guadagni per ogni singolo capo, riducendo così la necessità di vendere e fabbricare sempre nuovi prodotti.
Tutti contenti allora? Secondo la
LUT University di Lathi pare di no.

Noleggio o discarica?

Il report “Innovative recycling or extended use? Comparing the global warming potential of different ownership and end-of-life scenarios for textiles” è comparso nel maggio 2021 sulla rivista Environmental Research Letters. Il gruppo di ricercatori finlandesi che lo ha firmato, guidato da Jarkko Levänen, fa parte della LUT University, una delle più quotate in Europa per quanto riguarda gli studi sul clima. Il report aveva quindi il preciso obiettivo di misurare il potenziale impatto sul clima (GWP o Global warming potential) di diversi modelli di consumo dell’abbigliamento.
I ricercatori hanno scelto per la loro analisi quello che è probabilmente il capo di vestiario più comune, almeno in Occidente: un paio di jeans. L’impatto climatico è messo a confronto in cinque diversi scenari di utilizzo: Base, cioè acquisto e smaltimento in discarica; Reduce, ovvero un utilizzo prolungato rispetto alla media; Reuse, cioè la vendita di seconda mano o altro tipo di riuso; Recycle, ossia il processo industriale di riciclo delle materie prime; Share, che corrisponde ai vari modelli di noleggio e condivisione del prodotto. Come è abbastanza intuitivo, gli scenari con la minore impronta di carbonio sono risultati essere Reduce e Reuse, che sono poi, tra i modelli di consumo alternativi alla fast fashion, quelli già più collaudati e diffusi. A sorpresa, invece, lo scenario con la maggior impronta di carbonio è quello che prevede forme di condivisione dei jeans come appunto il noleggio. “Lo scenario Share – si legge nel report – ottiene buoni risultati nell’intensificare il tasso di utilizzo di un prodotto, ma c'è un alto rischio che aumenti la mobilità dei consumatori, che si tradurrebbe in elevate emissioni extra”. La bilancia della CO2 sembrerebbe dunque pendere a favore della discarica.

Oltre le metriche, il fattore umano

Prima di buttare via il bambino con l’acqua sporca, è bene tuttavia prendere la lente di ingrandimento e scendere un po’ più nei dettagli. Innanzitutto va tenuto presente che, come tutte le analisi di questo tipo, la ricerca assume parametri più o meno arbitrari, che se variati anche minimamente possono stravolgere i risultati. Ad esempio, si ipotizza che i jeans vengano indossati per una media di 200 volte prima di essere dismessi, quando la media globale di utilizzo dei capi di vestiario è scesa a 120 volte. Si potrebbe ribattere che in effetti i jeans, tra tutti i capi in un armadio, sono quelli indossati più spesso, ma è anche vero che quasi nessuno li affitta e anzi, nella maggioranza dei casi, il noleggio riguarda capi che, se acquistati, verrebbero usati solo una manciata di volte in una vita.
Altro assunto discutibile è il fatto che
il ritiro o la consegna di un capo noleggiato comporti delle emissioni extra dovute ai trasporti. Il problema può essere reale, soprattutto se si pensa ai servizi online che spediscono a domicilio, ma andrebbero anche considerate forme di mobilità alternative alle automobili. E in effetti i ricercatori finlandesi hanno elaborato anche uno scenario alternativo in cui la mobilità sostenibile abbassa drasticamente le emissioni del noleggio, portandolo al livello del riuso.
Più in generale la ricerca, d
ichiaratamente, non prende in considerazione altri tipi di impatti sull’ambiente oltre alle emissioni climalteranti, come ad esempio il consumo d’acqua, la perdita di biodiversità collegata alla produzione di materie prime, l’uso di sostanze chimiche tossiche, la produzione di rifiuti e l’inquinamento. Gli scenari di utilizzo dei jeans sono perciò stati analizzati unicamente attraverso lo standard LCA (Life Cycle Assessment), che già altre volte si è attirato critiche per essere troppo focalizzato sul prodotto e poco sui processi, e soprattutto per non tenere assolutamente in considerazione quello che in un modello di business e di consumo è il fattore più importante: il comportamento umano.
Insomma, se il clothing rental è un sistema giovane e sicuramente perfezionabile, anche le metriche con cui si cercano di misurare i benefici ambientali andrebbero continuamente aggiornate e rimesse in discussione, magari integrandole con un po’ di scienze umane. Altrimenti si arriva al paradosso di farci piacere persino la discarica.

Immagine: Andrej Lisakov (Unsplash)

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