Non è nemmeno detto che l’accordo per il cessate il fuoco possa andare in porto. La rivolta dei partiti dei coloni e di estrema destra all’interno del governo Netanyahu − che hanno definito come una grave sconfitta per Israele la bozza di intesa, del resto sostanzialmente analoga a quella concordata a maggio 2024 e fin qui rifiutata dalla dirigenza dello stato ebraico − potrebbe spingere il premier israeliano a trovare una ragione o una scusa qualsiasi per bloccare il meccanismo dell’intesa. Un meccanismo che, come è evidente a tutti gli osservatori, è di un’estrema fragilità. E che soltanto se si verificherà una serie di condizioni eccezionalmente continua e fortunata porterà alla reale cessazione della guerra, alla ricostruzione di Gaza, o a una pace definitiva in Medio Oriente. Ma, perlomeno, potrebbe essere un punto di partenza.

La prima fase e il rilascio degli ostaggi

Vediamo in dettaglio cosa prevede l’accordo firmato a Doha il 15 gennaio 2025 da Israele e Hamas, mediato da Stati Uniti, Egitto e Qatar. L’intesa è articolata in tre fasi. La prima fase scatterà (scatterebbe) domenica 19 gennaio, e durerà in tutto 42 giorni, cioè sei settimane. Prevede, a partire da domenica, l’immediata interruzione delle ostilità. Si comincia poi con l’avvio del processo di rilascio di ostaggi e prigionieri: Hamas libererà 33 ostaggi israeliani, principalmente donne e bambini, uomini over 50 e persone malate o ferite. Non è ancora chiaro quanti dei 33 siano vivi ma, secondo funzionari israeliani, la maggior parte lo sono.

Il testo chiede ad Hamas di rilasciare tre ostaggi femminili il primo giorno, quattro staggi il settimo giorno e altri 26 nelle cinque settimane successive. Si partirà dalle donne (soldate e civili) e dagli under 19, poi seguiranno gli uomini over 50 e solo alla fine dell'ultima fase si consegneranno i corpi degli ostaggi morti. In cambio, Israele deve liberare 30 detenuti palestinesi per ogni ostaggio civile e 50 per ogni soldata. I nove malati e feriti presenti nella lista dei primi 33 ostaggi israeliani saranno scambiati con 110 palestinesi, inclusi alcuni che stanno scontando la pena dell’ergastolo. A quel punto scatterà il ritiro parziale delle truppe dello stato ebraico: le forze israeliane si ritireranno gradualmente dalle zone più densamente popolate della Striscia, compreso il Wadi Gaza, mantenendosi entro 700-1.100 metri dal confine israeliano.

Nel giro di una settimana ai civili palestinesi sfollati sarà consentito di rientrare nelle proprie abitazioni (per chi le ha ancora in piedi). Potranno cominciare a tornare nel nord della Striscia, oltre il Corridoio Netzarim, attraverso via Rashid. Dal 22° giorno potranno risalire la Striscia anche tramite via Salahudin, l'altra arteria principale. Ispezioni sono previste solo se ci si sposta con dei veicoli e saranno operate da una azienda privata indicata dai mediatori in accordo con Israele.

Ancora, sarà consentito immediatamente l’accesso all’interno della Striscia di 600 camion al giorno, con carichi di cibo e altro materiale umanitario. In questa prima fase è indicato che verranno realizzate a Gaza un minimo di 60.000 abitazioni temporanee e installate almeno 200.000. Entro il giorno sedici della prima fase inizieranno le negoziazioni riguardo alla fase due dell'accordo − anch'essa della durata di sei settimane − in particolare per i dettagli relativi al successivo scambio di ostaggi e prigionieri palestinesi.

La seconda e la terza fase dell’accordo tra Israele e Hamas

La seconda fase inizia con ulteriori rilasci graduali, sia dei restanti ostaggi israeliani da parte di Hamas, sia da parte di Israele che libererà ulteriori prigionieri palestinesi. A questo punto scatterà il ritiro completo delle forze militari israeliane dalla Striscia di Gaza. Dal 42° giorno inizierà il ritiro dal cosiddetto Corridoio Philadelphi, che dovrà concludersi entro il 50° giorno. E qui si arriverà alla fase tre, che contempla la riconsegna dei corpi degli ostaggi deceduti alle rispettive famiglie e l’avvio di un piano internazionale per la ricostruzione delle infrastrutture di Gaza, sotto una supervisione internazionale di Egitto, Qatar e Nazioni Unite.

È evidente che ogni passaggio di questo calendario può rappresentare un intoppo o una scusa perché una o tutt’e due le parti in causa possano sganciarsi dal percorso del cessate il fuoco. Peraltro, nella giornata di giovedì 16 gennaio, nonostante l'annuncio dell’accordo, gli attacchi militari a Gaza sono continuati. Secondo dati diffusi nella mattina dello stesso giorno dal ministero della salute di Gaza (gestito da Hamas, ma su queste cose considerato affidabile) almeno otto attacchi israeliani nel territorio hanno ucciso 81 persone e ne hanno ferite quasi 200 nel corso delle 24 ore precedenti. Secondo la Difesa civile palestinese, un servizio di emergenza, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 77 persone dal momento in cui è stato annunciato l'accordo.

Gaza oggi

Sulla carta la fine delle ostilità consentirà la ripresa delle attività economiche nella Striscia di Gaza, facilitando la ricostruzione e lo sviluppo economico, sostenuto da un forte afflusso di aiuti umanitari e finanziamenti internazionali, che permetterà la ricostruzione delle infrastrutture e dei servizi essenziali, creando opportunità di lavoro e migliorando le condizioni di vita della popolazione locale.

Questo è l’obiettivo ideale, ma per adesso Gaza è un pezzetto di terra piccolissimo su cui vivono (o meglio sopravvivono) 2,3 milioni di abitanti (metà della popolazione sopravvissuta ha meno di 18 anni) in un contesto drammatico: macerie ovunque, oltre un milione di persone sfollate, collasso sanitario e infrastrutturale. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2014, anche in assenza di guerra e distruzione nel 2020 per la Striscia sarebbe mancata la soglia minima di accesso alle risorse per essere considerata abitabile da esseri umani. Figuriamoci ora, dopo 470 giorni di guerra. Secondo i dati del ministero della Sanità di Gaza, l'esercito israeliano ha ucciso in un anno e mezzo più di 46.500 palestinesi, di cui 18.000 bambini, mentre almeno altri 11.000 risultano dispersi e i feriti superano i 110.000. Vuol dire che a Gaza una persona su 50 è stata ammazzata. Si stima che sotto le macerie ci siano i corpi di oltre diecimila uomini e donne. I feriti sono oltre centomila (4.500 le amputazioni), migliaia i dispersi e 1,9 milioni gli sfollati: il 90% della popolazione.

Il costo della guerra a Gaza

Sempre secondo una stima dello scorso ottobre delle Nazioni Unite, i bombardamenti hanno prodotto ben 42 milioni di tonnellate di macerie: ci vorranno almeno 14 anni per rimuoverle, a un costo di 1,2 miliardi di dollari, tenendo conto che nel materiale (largamente composto da macerie di case) ci sono resti umani, bombe inesplose e pericolosi contaminanti come il cancerogeno amianto. Per spostare queste macerie, oltre a risorse, servirebbe moltissimo personale specializzato e spazio dove depositarlo, ripulirlo e trattarlo (ad esempio per rigenerare cemento o asfalto, o espandere la costa).

Secondo l'Autorità per la qualità ambientale della Palestina, sono state sganciate sulla Striscia circa 85.000 tonnellate di esplosivo: bisognerà così trovare e disinnescare le bombe inesplose, stimate in circa 7.500 tonnellate. I dati satellitari dell'ONU (UNOSAT) riportavano in dicembre che circa il 69% degli edifici della Striscia è stato distrutto. Risultano inagibili 200 strutture governative, 136 tra scuole e università, 823 moschee e 3 chiese. Per non parlare degli ospedali: la maggior parte è danneggiata, solo 17 su 36 avrebbero qualche reparto in funzione a gennaio. Il danno stimato alle infrastrutture arriva a 18,5 miliardi di dollari, calcola un rapporto della World Bank dell’inizio del 2024. Parliamo di edifici residenziali, commerciali, industriali, scuole, infrastrutture ospedaliere ed energetiche.

Un aggiornamento dell’analisi calcola che ormai è disponibile solo un quarto della quantità di acqua che era a disposizione prima della guerra, con il 70% degli impianti idrici distrutti o danneggiati. Le fognature non funzionanti hanno inondato le strade di acqua putrida, accelerando la diffusione di malattie. Nella Striscia di Gaza l’unica risorsa d’acqua è costituita dalla falda acquifera costiera che risultava insufficiente a rispondere ai bisogni della popolazione già prima del 7 ottobre. A causa del suo eccessivo utilizzo negli anni, la falda ha subìto infiltrazioni dalle vicine acque marine e di scarico, con il risultato che oggi il 90-95% della sua acqua è contaminata e inadatta al consumo umano. Quasi il 70% delle strade è inagibile. Al momento, più della metà dei terreni agricoli risulta inutilizzabile o degradato dal conflitto. Per quanto riguarda l'allevamento, 15.000 bovini, ossia oltre il 95%, sono stati macellati o sono morti, così come metà delle pecore. L'economia della Striscia è completamente paralizzata: otto attività commerciali su dieci sono chiuse.

Quanto costerà la ricostruzione a Gaza

Ad aprile 2024, la Banca Mondiale ha stimato i costi iniziali della ricostruzione in 18 miliardi di euro. Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha recentemente calcolato che la ricostruzione potrebbe richiedere fino al 2040, con un costo complessivo che potrebbe raggiungere i 40 miliardi di dollari. Ma secondo Daniel Egel, un economista senior del think tank RAND con sede in California, ricostruire Gaza potrebbe in realtà costare molto più di 80 miliardi di dollari, considerando spese nascoste come l'impatto a lungo termine di un mercato del lavoro devastato da morte, infortuni e traumi. Senza che a oggi sia chiaro chi dovrebbe intestarsi l'onere di tali spese.

In passato i principali donatori per la realizzazione di opere a Gaza erano stati i paesi del Golfo, l'UE, gli Stati Uniti e il Giappone. Il Qatar in particolare ha investito molto in strade, ospedali e complessi abitativi, oltre a progetti agricoli e infrastrutturali, da aggiungere a sovvenzioni per centinaia di milioni di dollari nell’ultimo decennio. Tutte opere che sono state spazzate via dai bombardamenti israeliani.

 

In copertina: foto di Mohammed Ibrahim, Unsplash