Il 2 febbraio si celebra il World Wetlands Day, la Giornata mondiale delle zone umide. Parliamo di lagune, torbiere, stagni, laghi. Culle di biodiversità spesso in pericolo che ricoprono solo il 6% della superficie terrestre, ma che costituiscono ecosistemi fondamentali per la sopravvivenza dell’essere umano e anche per il suo benessere, che sia questione di garantire acqua potabile e cibo o difendere le popolazioni da eventi meteoclimatici estremi.
Non è tuttavia un caso che la Giornata Mondiale si celebri il 2 febbraio. In questa data, nel lontano 1971, venne adottata la Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale, meglio nota come Convenzione di Ramsar, dall’omonima città iraniana in cui è stata firmata. Il primo dei moderni trattati intergovernativi globali sulla conservazione e l'uso sostenibile delle risorse naturali. Da allora hanno aderito su base volontaria 172 Paesi, designando a livello nazionale 2.503 zone umide. La gestione di questa struttura è un esercizio complesso, che spazia dalla diplomazia e dalla finanza alle pratiche di conservazione, dalle questioni di genere ai saperi indigeni, dall’urbanizzazione agli inquinanti emergenti. Materia Rinnovabile ne ha parlato con Musonda Mumba, Segretaria generale della Convenzione di Ramsar sulle zone umide.
Qual è il tema di questa Giornata mondiale?
Il tema di quest'anno è assolutamente fondamentale perché riguarda il nesso tra zone umide e benessere umano. Già nel 1971, oltre 50 anni fa, i fondatori della Convenzione parlavano della questione dell’uso saggio delle aree umide. Un aspetto che si riferisce in gran parte a come le persone usano questi spazi, ma anche alla consapevolezza dell’importanza della biodiversità, dell’avifauna, degli insetti, dei pesci e delle innumerevoli specie vegetali che dipendono da questi ecosistemi.
Un esempio del nesso aree umide-benessere?
Negli Stati Uniti, un periodo di prolungata siccità in uno dei laghi salati dello Utah ha portato a tempeste di sabbia e polvere. Le sostanze chimiche contenute in queste polveri sono molto problematiche per le persone affette da difficoltà polmonari, ad esempio. A dimostrazione di come l’assenza di acqua in ecosistemi che normalmente dovrebbero esserne ricchi abbia implicazioni per la salute.
Accade lo stesso per gli incendi boschivi, come quelli avvenuti in Canada?
La maggior parte di quegli incendi è avvenuta in ecosistemi caratterizzati da torbiere. E quando le torbiere hanno molta meno acqua, il fuoco persiste anche per molte settimane. Lo abbiamo visto anche in Indonesia, con conseguenze che vanno oltre i confini del Paese. Fumo e inquinamento non rispettano i confini politici. Persino New York l’anno scorso si è trovata avvolta da una foschia arancione dovuta all’inquinamento per gli incendi in Canada.
C’è poi l’inquinamento delle acque, inclusi inquinanti emergenti come le microplastiche.
Certamente. Ci sono anche i PFAS, sostanze chimiche cosiddette “forever chemicals” che non si degradano naturalmente e hanno implicazioni molto gravi per la salute, agendo come interferenti endocrini. Per quanto riguarda le malattie, nel mio Paese, lo Zambia, proprio ora è in corso un’epidemia di colera, una malattia infettiva che nelle città può diventare un problema di salute pubblica anche a seguito di inondazioni. La stessa malaria ha a che fare con l’acqua, visto che la riproduzione delle zanzare avviene soprattutto nelle zone umide. Tuttavia, stiamo assistendo ad alcuni progressi. Di recente Capo Verde ha annunciato di aver eradicato la malaria. Come ci sono riusciti? Ci sono così tante esperienze e lezioni che vogliamo ascoltare dal basso, anche dal processo politico.
Quali sono invece gli impatti del cambiamento climatico alle latitudini più alte?
Uno degli aspetti più complessi che la gente non ha ancora capito è l’arretramento del ghiaccio nelle regioni caratterizzate da permafrost. La maggioranza delle zone umide dell’Alaska o della Siberia sono ghiacciate per la maggior parte dell’anno. Questo scongelamento dei ghiacci rappresenta un precedente molto pericoloso, perché improvvisamente saremo esposti a virus sconosciuti. E questo è strettamente legato al cambiamento climatico. Dobbiamo pensare anche alla complessità circolare di questi problemi.
Nel 2018 le Parti contraenti della Convenzione hanno adottato la prima risoluzione che riconosce l'importanza di affrontare l'uguaglianza di genere e l'emancipazione femminile nell'attuazione della Convenzione. Perché?
Ricordo che quando ero bambina, ogni volta che mia nonna alzava lo sguardo nella stagione delle piogge e vedeva le rondini, ci raccontava che le piogge erano imminenti. Le conoscenze indigene e i sistemi tradizionali vengono trasferiti da una generazione all'altra, e le implicazioni e l'uso delle zone umide sono state per lo più appannaggio delle donne.
Quando le paludi irachene sono state ampiamente distrutte, le donne sono state determinanti nel ripristino di questi ecosistemi. Allo stesso modo, in Europa, in Doňana, in Spagna, o in Italia sono impiegate tantissime raccoglitrici stagionali. La raccolta di molti prodotti avviene infatti in zone umide. Nei sistemi di mangrovie in Sud America o in Africa riguarda anche le risorse ittiche, e l'essiccazione dei pesci è praticata soprattutto dalle donne, che sono coinvolte nell'ecosistema e nel loro uso ma spesso non vengono ricompensate. E alle volte diventano anche vittime, come per esempio nel lago Ciad, di cui abbiamo visto le acque ridursi di oltre il 95%. Dove ci sono conflitti, le donne diventano vittime di queste circostanze. Ma allo stesso tempo ne sono anche la soluzione, perché mediano cercando di essere costruttrici di ponti all’interno delle comunità.
Dal 2018, 43 città di 17 Paesi sono state ufficialmente riconosciute come "Wetlands cities” ai sensi della Convenzione di Ramsar sulle zone umide. Perché avete lanciato un accreditamento specifico?
In meno di 20 anni oltre il 60% della popolazione mondiale vivrà nelle città. E nella maggior parte di queste città l’approvvigionamento idrico è costituito da acque sotterranee o da acque provenienti dall’esterno della città. Questo accreditamento è strettamente connesso al ruolo delle zone umide per gli esseri umani e il loro benessere, ma anche per la natura e le rotte migratorie. In Asia, lungo la East Asian-Australasian Flyway, la maggior parte delle città accreditate sono megalopoli.
Gli uccelli volano su lunghe distanze e sopra queste aree edificate. Per questo motivo, ci siamo impegnati a parlare con i Paesi e con le rispettive amministrazioni cittadine in modo da creare spazi d'acqua perché gli uccelli si possano fermare e continuare la propria migrazione. Una delle città paludose accreditate all'ultima conferenza delle parti a Ginevra è stata Kigali, in Rwanda. Kigali è una piccola città, ma le sue acque dolci passano attraverso un’enorme rete di zone umide che inizialmente era coperta da aree industriali. Il Presidente Kagame ha chiesto agli imprenditori di allontanare i siti produttivi dalle zone umide, in modo da poter ripristinare l'ecosistema. La qualità dell’acqua è migliorata in modo impressionante. Sono tornate specie di uccelli che non si vedevano da anni, moltissimi anni.
Parlando del cosiddetto “elefante nella stanza”, la finanza ha già iniziato ad accorgersi dell’importanza delle aree umide?
Per quanto riguarda le Banche multilaterali di sviluppo, l’Asian Development Bank è stata la prima a fornire finanziamenti innovativi in una delle iniziative regionali, l'Iniziativa Ramsar per l'Asia orientale. La Banca europea per gli investimenti ha invece disinvestito dai combustibili fossili, industria che ha implicazioni sugli ecosistemi delle zone umide. Uno dei meccanismi di finanziamento più interessanti l’abbiamo avuto per l'Uganda. Abbiamo lavorato a stretto contatto con lo United Nations Development Program (UNDP) per ottenere 30 milioni di dollari dal Green Climate Fund per sostenere il Governo solo sulle zone umide. Ecosistemi che includono anche torba e acqua dolce.
Dobbiamo chiederci però come sfruttare questi meccanismi di finanziamento per investire in adattamento. Come adattarci alle fluttuazioni di temperatura o alla perdita di spazi? La realtà è che ci saranno luoghi che scompariranno per sempre, se si inaridiranno. Questo elemento di finanziamento è presente sui tavoli e ci vedrà coinvolti già a partire dal prossimo World Water Forum, che si terrà a Bali a maggio.
Come possiamo reindirizzare risorse per una gestione più basata sulla natura?
In questo momento si sta discutendo molto sui crediti di carbonio e sull'utilizzo di questo meccanismo. Ma questo richiede anche regole e normative adeguate. Cosa significa esattamente investire in una zona umida, per un determinato sistema di mangrovie? Cosa significa per le persone? Cosa significa per la comunità che dipende da questo ecosistema? E come possiamo pensare a un finanziamento innovativo?
Di cosa ci sarà bisogno di pari passo con la finanza?
Si tratta di una questione che richiede un'adeguata regolamentazione e molta trasparenza. Serviranno onestà e governance, in particolare. Quali sono le strutture politiche e programmatiche presenti da entrambi i lati dello spettro, tanto nel settore privato e nel settore pubblico? Abbiamo visto molte storie di aziende che vengono a dire: "Questa terra è nostra e ci appartiene". E ciò crea un conflitto in molti spazi. In Africa, ad esempio, le questioni relative alla proprietà sono molto complesse e delicate. Sarà fondamentale capire come parlare di finanziamenti in una prospettiva davvero trasparente.
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