COP28 sarà il duello finale o l’inizio della rivincita del settore dell’oil&gas? Con un numero record di 2.456 persone affiliate al settore oil&gas accreditate al negoziato (di cui 34 di ENI/Saipem), per la prima volta si percepisce il senso di incertezza, di paura, che scuote un settore che in piccola parte cerca di guardare al futuro, investendo in rinnovabili, ma che di fatto continua le esplorazioni di nuovi pozzi di petrolio o di gas, seguendo un modello business-as-usual.
Che sia il mar Mediterraneo di fronte all’Egitto, la Nigeria, i depositi di Shale Gas americani, le coste Brasiliane (Lula ha appena accettato di far parte di OPEC+) o il deserto della Penisola Arabica, il mondo dell’exploration non si ferma. Il mantra delle Major è il seguente: gli investimenti di oggi per i prossimi trent’anni nelle fossili pagheranno la transizione alle rinnovabili, all’idrogeno e al nucleare del futuro; il gas metano è il combustibile di transizione. Le big americane fanno addirittura spallucce, rinnegando fino all’ultimo la propria responsabilità.
Ma è chiaro che il destino per un phase out/down post 2050 delle fossili sembra inevitabile, fatta eccezione per piccole quote per scorte di emergenza, per la petrolchimica e poco altro. La pressione tra qua e il 2025 è destinata a salire grandemente, e su questo dovrà concentrarsi il movimento per il clima e il mondo della politica.
L’ultimo grande nemico alla sfida climatica è Big Oil, incarnato soprattutto da Arabia Saudita, Russia, Iran e Stati Uniti, dove ci sono le maggiori resistenze per la transizione. Certo ci sono altri petrostati, come il Venezuela e l’Iran, che vorrebbero vedere la propria ripresa economica guidata dall’estrazione di petrolio, ma nella scena ONU contano poco (l’Iran ha persino levato le tende).
Arrivano i CCS
C’è però un escamotage che consentirebbe al settore delle fossili di continuare con i propri investimenti fossili. Si chiama Carbon Capture and Storage (CCS) ed è un set di tecnologie complesse, controverse e ancora non del tutto scalabili a livello industriale.
Se già si guarda con criticità alle compensazioni delle emissioni di CO₂, per il CCS il discorso è più complesso. Le aree di applicazione sono due: produzione di elettricità da fonti fossili e i settori industriali hard-to-abate, dove non sempre è possibile ridurre a zero le emissioni. Se si vuole difendere la produzione ma allo stesso tempo decarbonizzare senza trasformare i processi o trovare fonti sostitutive, la cattura, lo stoccaggio o l’uso della CO₂ come mattoncino della chimica polimerica diviene fondamentale.
Per questo uno punti più caldi del negoziato a COP28 è legato alla dicitura di eliminare (completamente o gradualmente) le fonti fossili “unabated”, ovvero quelle che non usano tecnologie per riduzione o cattura delle emissioni, come Carbon Capture and Storage o Carbon Capture and Usage (CCUS) o altre modalità di riduzione, inclusi i mercati del carbonio e altri meccanismi discussi nell’Articolo 6, di cui parleremo in un approfondimento nei prossimi giorni.
I CCS sono inevitabili?
Secondo l’IPCC quasi tutti gli scenari di decarbonizzazione allineati al target di contenimento delle temperature medie globali entro 1,5°C al 2100 richiedono a vario grado l’impiego di tecnologie CCS e affini, dal minimo apporto all’uso diffuso, a seconda dello scenario considerato.
I rischi legati a un uso a vario livello di queste tecnologie sono due, avvisano gli autori del report Unabated: the carbon capture and storage 86 billion tonne carbon bomb aimed at derailing a fossil phase out, realizzato dal centro di ricerca e policy Climate Analytics. Il primo è che queste tecnologie potrebbero creare la falsa impressione che possiamo raggiungere gli obiettivi climatici, mantenendo un consumo su larga scala di combustibili fossili.
Il secondo, si legge sul report, si verifica “se il termine unabated è mal definito, e [dunque] potrebbe rendere vano l’impiego di queste tecnologie”. Una delle soluzioni è delimitare estremamente bene il perimetro dell’impiego, ad esempio elencando un gruppo ristretto di settori industriali hard-to-abate, come cemento e siderurgia, ma non per la produzione di energia elettrica, come richiesto dal settore oil&gas.
Attualmente, circa 40 impianti commerciali di cattura della CO₂ sono operativi a livello globale, catturando annualmente 45 milioni di tonnellate di CO₂, equivalenti allo 0,12% delle emissioni globali del 2022 legate all’energia. “Il CCS è una tecnologia il cui ruolo potrà essere più rilevante nel futuro nel percorso per il net zero, tanto che sia la IEA che l'IPCC ne vedono il maggiore sviluppo post 2050. Soprattutto, non può servire a mantenere lo status quo, ovvero sfruttare i combustibili fossili al ritmo di oggi. Così facendo, infatti, l'uso di questa tecnologia non sarebbe in alcun modo sostenibile, implicando notevoli costi (fino a 3,5 triliardi/anno da qui alla metà del secolo) e consumi elettrici fuori scala”, spiega a Materia Rinnovabile Chiara Di Mambro, Responsabile politiche di decarbonizzazione di ECCO Climate.
Costi ancora troppo alti?
Attualmente i costi d’investimento per installazione sono elevati, con una forbice, in base alla tecnologia adottata, tra i 124 e 317 €/tonnellata di CO₂, secondo dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. I costi operativi arrivano fino a 120 €/tonnellata di CO₂. A questi si dovrebbero aggiungere costi relativi ai rischi e costi di gestione di lunghissimo termine che ricadranno sulle future generazioni per la manutenzione e il monitoraggio dei siti. Anche perché bisogna garantire che la CO₂ non fugga dai depositi e non si creino “carbon bomb”, pericolose anche per la sicurezza umana, date le elevate concentrazioni. Dunque servono elevati investimenti in sicurezza, in un settore, quello dell’oil&gas, non certo alieno ai maxi-incidenti.
In Italia attualmente si stima un potenziale di abbattimento tra le 20 le 40 milioni di tonnellate di CO₂ (Mton/anno) grazie al ricorso alla CCS per la neutralità carbonica. Per il medio periodo, non ci sono ancora obiettivi specifici, che dovrebbero essere identificati con il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima a metà del 2024. Il principale progetto in fase di sviluppo di cui si parla è quello di ENI e Snam a Ravenna che, per la fase industriale, ha un obiettivo di 4 Mton/anno a partire dal 2026, con possibile incremento post 2030 di 16-20 Mton/anno (se paragonate ai 417,6 MtCO₂eq emessi nel 2021, 4MtCO2 sono lo 0.96% mentre 16-20 MtCO₂eq, lo 4,3%). Materia Rinnovabile ha inviato richieste di dettaglio ad Eni che a breve dovrebbero essere pubblicate.
Cosa può succedere a Dubai?
Se le Parti decideranno di inserire nel testo finale il phase down/out delle fonti fossili “unabated”, si aprirà un vaso di Pandora che fomenterà una marea di nuovi finanziamenti privati e pubblici per i CCS e CCUS, oltre che una nuova generazione di sussidi considerati “ambientalmente favorevoli”, ma di fatto finalizzati alla tutela della sopravvivenza delle fossili. Basta vedere i 10,4 miliardi di euro in sussidi fossili che proprio in questi giorni il Canada ha offerto come crediti fiscali per tecnologie di CCS per nuove estrazioni di oil&gas.
Su questa linea si potrebbero aprire scenari complessi, che dovrebbero essere governati molto rigidamente ‒ e non facilmente si potrà trovare in sette giorni una chiara definizione di quali settori possono ricadere nelle eccezioni dell’uso di gas, petrolio o financo carbone con l’uso di tecnologie di cattura e stoccaggio o altri meccanismi. Prestiamo attenzione insomma nei prossimi giorni a tutte le menzioni sui CCS, in particolare nell’Articolo 35, in cui, nella bozza del documento finale, si parla della riduzione totale/graduale delle fonti fossili, elemento politico emblematico di questa COP.
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Photo by COP / Kiara Worth