La Direttiva CSRD chiede alle aziende europee che superano alcune soglie dimensionali di rendicontare i propri impatti in ambito ESG. Perché, si ricorda, la sostenibilità si dirama lungo queste tre direttrici: ambiente, sociale e governance. Va però detto che molti dei temi di maggiore attualità stanno nell’area ambientale. Tra essi, il più rilevante è senza dubbio la crisi climatica.

Non a caso, lo European Financial Reporting Advisory Group (EFRAG), nel rilasciare gli standard di rendicontazione per i report di sostenibilità, ne ha sviluppato uno sul clima che, tra gli standard tematici, è certamente quello più articolato in termini di richieste, sia quantitative e qualitative. Oltre a essere, di fatto, l’unico obbligatorio. Se un’azienda ritiene che il clima non sia un proprio tema materiale, deve specificare perché e spiegare se ha intenzione di includerlo nelle successive rendicontazioni. Cosa domanda lo standard ESRS sul clima? Impossibile riassumerlo in poche righe, vista la sua estensione. Vediamo quindi gli aspetti più rilevanti.

Lo standard ESRS sul clima

Per prima cosa, lo standard ESRS sul clima richiede di identificare gli impatti, i rischi e le opportunità legati al clima. Gli impatti sono, ovviamente, tutte le emissioni di GHG, anche quelle che avvengono nella catena del valore (Scope 3). I rischi e le opportunità sono tutti quei mutamenti negli ecosistemi, nella normativa, nel mercato, ecc., che coinvolgono l’azienda. Si parla così di rischi fisici legati al clima (a loro volta divisi in acuti e cronici: si pensi ai fenomeni di forte siccità stagionale per i primi, o all’acidificazione degli oceani, rilevante per le attività di pesca, per i secondi), di rischi di transizione (le normative UE introducono certamente nuovi costi per le aziende) e di opportunità collegate alla nascita di nuove aree di mercato (per il mutamento delle preferenze dei consumatori).

Poi, viene chiesto se vi sono presidi formalizzati di pianificazione: un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici allineato con gli Accordi di Parigi (e dunque col Green Deal), una politica per il clima e la definizione di azioni e obiettivi. Ancora, rispetto a tutte le emissioni che hanno luogo nella catena del valore. Vi sembra molto impegnativo? Ovviamente lo è. Come affrontare il problema? La direttiva CSRD non chiede certo agli uffici di sostenibilità di improvvisarsi centri di studio del climate change, né impone di dotarsi di tutti questi strumenti. Ciò che è richiesto è mappare le proprie aree di impatto (comprese la catena di fornitura e la fase di consumo e dismissione dei beni prodotti) e, nel caso in cui l’impresa lo ritenga utile, lo standard offre i riferimenti per porre ragionevoli obiettivi di decarbonizzazione.

Spoiler: la maggior parte delle emissioni di CO2 starà nella catena del valore, soprattutto nel caso di un’azienda che si occupa di produzione. Quindi le azioni per la decarbonizzazione si concentreranno lì. E rispetto a questo aspetto, ci sono due buone notizie. La prima è che, affacciandosi sulla catena di fornitura, l’azienda troverà altre imprese (fornitori e clienti) che saranno altrettanto interessate alle tematiche climatiche (indipendentemente dalla loro inclusione nelle soglie CSRD), e con le quali sarà possibile avviare partnership per raggiungere obiettivi comuni. La seconda è che il riferimento al Green Deal offre una chiave di lettura: se si può dimostrare l’allineamento a questo quadro strategico-normativo (per esempio, anticipando alcuni dei target fissati per il proprio settore), si ha la ragionevole certezza di contribuire agli obiettivi UE per il clima.

La quantificazione delle emissioni Scope 3

Si è parlato di catena del valore, e qui risiede una grandissima novità per la rendicontazione: diviene di fatto obbligatoria la quantificazione delle emissioni Scope 3. E non potrebbe essere altrimenti: prima di definire piani e obiettivi di decarbonizzazione, la quantificazione delle emissioni è un passaggio imprescindibile. Per il primo anno, è più che legittimo che tale calcolo si poggi sull’utilizzo di database internazionali. Da quelli successivi, la rendicontazione di questo dato può essere migliorata cercando dati diretti (in particolare nella catena di fornitura). Questo punto aiuta anche a creare quelle collaborazioni imprescindibili per centrare obiettivi condivisi con gli stakeholder.

Ultima considerazione sulla compensazione delle emissioni di GHG, molto discussa negli ultimi anni ma compresa nell’obiettivo di neutralità carbonica UE entro il 2050. E quindi considerata anche dalla CSRD come strumento utile per abbattere quella quota di emissioni che non può essere mitigata da altri interventi. Le richieste sono stringenti: da una parte, vengono chieste all’azienda numerose specifiche a garanzia che gli interventi di compensazione rispettino standard riconosciuti dall’UE. Dall’altra, è domandato di quantificare il ruolo che la compensazione assume nella strategia di decarbonizzazione aziendale. Viene quindi ribadito il concetto che questi interventi debbano riguardare una porzione residuale di abbattimento della CO2. Se un’azienda fa eccessivo affidamento a quest’attività, il rischio che sia scivolata nel greenwashing è alto. E i suoi stakeholder, grazie al report di sostenibilità, lo possono venire a sapere.

 

Immagine: Vienna al tramonto, Envato