Negli ultimi anni, il tema della sostenibilità è diventato centrale nelle strategie aziendali, in modo volontario o tramite normative. Da quando l’Italia ha recepito la Direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), per esempio, l’obbligo di reporting non strettamente finanziario è stato esteso alle piccole e medie imprese (diverse dalle microimprese) quotate in borsa. Ma cosa cambia questa direttiva, in sostanza? Come influisce quest’obbligo sulle strategie aziendali? Ne abbiamo parlato con esperti ed esperte in un ciclo di interviste che ha voluto dare voce a imprese rilevanti del panorama italiano, e che inauguriamo con Matteo Colle, direttore relazioni esterne e sostenibilità di Gruppo CAP.
Partiamo dal quadro generale: secondo lei, quali sono i principali cambiamenti che le normative europee, come la CSRD e la tassonomia, stanno comportando per le imprese?
Sappiamo bene che negli ultimi anni la rendicontazione non finanziaria ha vissuto un’evoluzione significativa, trainata sia dagli obblighi normativi, come l’introduzione della Direttiva sulla dichiarazione non finanziaria, sia dall’intervento dei revisori sulla sostenibilità, che ha richiesto una maggiore strutturazione dei processi aziendali. Questo ha portato a una crescita della cultura aziendale sulla sostenibilità, migliorando la qualità dei report. Tuttavia, permangono difficoltà nella comparabilità dei dati, nonostante l’adozione di standard come il GRI in Europa, problema che si accentua a livello globale: in qualche caso i criteri sono un po’ oscuri, bisogna ammetterlo. L’Unione Europea ha risposto varando un framework univoco che, secondo me, è insieme ambizioso e necessario, introdotto attraverso la tassonomia e le direttive CSRD e CSDDD. Questo sistema offre parametri chiari per tutti, uno standard unico di rendicontazione, colma le lacune della precedente direttiva sulla DNF, e favorisce uniformità e trasparenza nella valutazione delle performance ESG.
E tuttavia, qualche problema c’è, anche per i più virtuosi, come voi di gruppo CAP…
Eh, sì. La Direttiva CSRD si distingue per un livello di dettaglio estremamente complesso e articolato, tipico dell’approccio normativo europeo, che cerca di regolamentare ogni aspetto possibile. Per esempio l’introduzione della doppia materialità, che ridefinisce la rilevanza dei temi per la rendicontazione. Ma non solo: gli standard richiesti, gli ESRS, sono molto ambiziosi, e impongono alle aziende uno sforzo considerevole: anche chi come noi ha una solida esperienza di rendicontazione si trova a dover gestire fino al 50% dei circa mille data point che vengono richiesti senza dati adeguati, senza precedenti pratiche di raccolta, oppure che vanno gestiti in modo differente da come si faceva prima. Non sono piccoli margini di incertezza, e bisognerà cambiare i processi aziendali per allinearsi alle nuove normative imposte dagli ESRS.
E come potrete risolvere questo problema?
Io penso che si risolverà nel tempo, anche grazie all’intervento dei revisori. Anche in assenza di linee guida specifiche, che non sono ancora state pubblicate, i revisori giocheranno un ruolo decisivo nel supportare le aziende nell’interpretazione delle norme. La sfida non è banale, ed effettivamente posso immaginare la preoccupazione delle piccole e medie imprese, e delle aziende che per la prima volta devono conformarsi agli ESRS, affrontando complessità mai sperimentate prima. C’è da dire che gli ESRS hanno un grande pregio: spingono molto le aziende a ingaggiarsi sulla componente strategica. Oltre a richiedere un rendiconto retrospettivo di quello che è stato fatto, chiedono di indicare e comunicare strategie, ambizioni, target di sostenibilità, ma anche le politiche necessarie per raggiungerli. Questo obbliga le aziende, anche quelle meno strutturate, a chiarire la propria visione sulla sostenibilità, fissando obiettivi chiari e delineando il percorso per concretizzarli. È una conseguenza molto positiva, a volte sottovalutata, dell’introduzione di questi standard, anzi: è una grande innovazione.
Ma richiederà un grande lavoro, sembra di capire.
Questo è indubbio, e un po’ mi preoccupa: specie nella prima fase ci troveremo con i team di sostenibilità completamente ingaggiati su queste materie di compliance, sottraendo tempo e risorse alle altre attività, come lo sviluppo di progetti trasformativi e il miglioramento concreto delle pratiche di sostenibilità in azienda. Da questo punto di vista ritengo che, se giustamente l’Unione Europea ha l’ambizione di alzare l’asticella degli standard di sostenibilità a livello mondiale, di sicuro c’è stata anche una notevole crescita della mole normativa, che creerà più di un problema per le aziende più piccole o meno strutturate. Non tutti possono − come le grandi imprese − permettersi di arruolare consulenti o di aumentare le risorse per queste attività. Qualcuno finirà per spendere tutto sulla compliance e rinunciare a iniziative per esempio sulla decarbonizzazione o la biodiversità.
Ha accennato alle società di revisione e di consulenza. Immagino ci sia un gran fermento in questo settore, considerando la mole di lavoro e commesse che presumibilmente si scatenerà.
La revisione e le certificazioni, se fatte bene, sono un’occasione preziosa per far crescere le aziende. Non si tratta solo di rispettare regole, ma di migliorare le competenze, la cultura aziendale e il lavoro di squadra. Prendiamo, per esempio, la certificazione sulla carbon footprint: è stata una vera sfida, soprattutto quando si è trattato di confrontarsi su norme e interpretazioni, spesso con discussioni accese. Soprattutto sul tema della CO₂, dove ogni dettaglio conta, questi confronti – anche difficili – ci hanno permesso di capire meglio il sistema e migliorare. Insomma, certificazioni e revisioni non sono solo burocrazia, ma possono davvero fare la differenza. Non ci dobbiamo dimenticare che il framework di rendicontazione, dalla sostenibilità alla tassonomia, è pensato per garantire trasparenza a chi investe, che sia un piccolo risparmiatore o un grande fondo. Il messaggio è chiaro: se un’organizzazione dichiara di essere sostenibile, deve poterlo dimostrare, e qui il controllo terzo è essenziale.
E la consulenza, invece?
La consulenza, invece, è un campo più sfumato. La materia è diventata così specialistica che, a meno di avere team enormi e super qualificati, è inevitabile ricorrere a consulenti. La tassonomia, la decarbonizzazione, la CSRD: sono tutti ambiti con una complessità tecnica altissima. E, visto che siamo all’inizio, molte cose sono ancora poco chiare. I consulenti servono per coprire quei vuoti, portando una competenza verticale su temi specifici. Dopo di che, l’obiettivo, soprattutto per chi gestisce una struttura, è far crescere le competenze interne. Più il personale è formato, meno si dipende da consulenti esterni. Però, non possiamo ignorare che stiamo assistendo a un fenomeno nuovo: la sostenibilità sta diventando talmente centrale che ormai è protagonista anche nella comunicazione di massa, con spot televisivi e campagne pubblicitarie. Questo non era mai successo prima, e dimostra quanto il tema sia diventato cruciale anche a livello sociale.
Cosa significa, secondo lei, per le aziende?
Significa che c’è una crescita progressiva e inesorabile della richiesta di compliance, che si è estesa a tutte le aziende, spingendo a una crescente domanda di consulenza in questo campo. L’offerta c’è, è la domanda che specie per le piccole imprese è un po’ immatura, per così dire. In tanti si trovano a dover gestire per la prima volta queste tematiche, spesso senza una chiara consapevolezza di cosa significhi realmente "essere sostenibili”. Questa situazione ha portato a un mercato in espansione, con un'offerta molto variegata di servizi di consulenza che non sempre garantisce qualità. Le società di consulenza, dai grandi studi legali alle agenzie di comunicazione, hanno aperto branche dedicate alla sostenibilità, ma ciò ha reso difficile per chi non è del settore valutare l'efficacia delle proposte. E in molti casi le proposte dei consulenti sono più mirate a risolvere il problema della compliance con un report corretto e accettabile che a fare veramente la sostenibilità, a trasformare il business dell’azienda, a definire le ambizioni di sostenibilità con l’azienda.
Non è certo questo lo spirito della norma…
Eh, no. La pressione principale per questo cambiamento dovrebbe provenire dal mondo della finanza e dai consumatori, ma oggi il prezzo continua a essere il fattore predominante nelle scelte di acquisto, così come le scelte della finanza non sono per forza di cose orientate all’appoggio alle attività veramente sostenibili. Inevitabilmente c’è il rischio che vada a finire com’è stato per la GDPR o le regole sulla privacy: le aziende si sono fatte fare il “manualino”, l’hanno messo nel cassetto, la compliance è stata fatta, fine del problema. E non è cambiato granché nella sostanza. Una storia che potrebbe ora ripetersi.
Ma alla fine, tra potenzialità e criticità, prevalgono i “più” oppure i “meno”?
Ah, non ho dubbi: prevalgono i più. Con tutti i limiti, con tutti i rischi, quello che è successo è che il concetto della sostenibilità è arrivato sui tavoli dei dirigenti, dei responsabili marketing e dei comunicatori, che hanno capito che il vecchio modo di fare business non è più praticabile. Un grande merito di tutto ciò va attribuito al framework europeo, che ha delineato un'agenda chiara, e spinto anche le realtà più piccole a dover prendere seriamente in considerazione queste problematiche. Dunque, il bilancio è positivo. Poi ci possono essere difficoltà di implementazione, si può e si deve fare meglio, va calibrato lo sforzo in base alle dimensioni aziendali. Un altro aspetto critico è la gestione della catena del valore, controllare la filiera dei fornitori, verificare le possibili ricadute sui clienti è difficile e sfidante. Ma alla fine queste normative affermano un fatto: chi fa impresa è responsabile degli impatti della propria attività non solo all'interno della propria organizzazione, ma anche all’esterno, cioè sulla società, l'ambiente, il territorio, i diritti umani e così via. Responsabile, direi, possibilmente e ragionevolmente, perché poi è chiaro che è difficile, se non impossibile, avere il controllo, per esempio, su quanto accade in un’impresa di fornitura alla fine della filiera in Malesia. Ma ormai gli imprenditori sanno che il proprio business non finisce all'interno delle pareti della fabbrica o dell'impianto o dell’ufficio.
Voi di CAP come vi siete organizzati per affrontare questa sfida?
Il segreto è stato giocare d’anticipo. Anche se il framework era noto, come sappiamo mancano gli standard definitivi, e questo ha complicato le cose. Prendiamo la tassonomia: l’azienda ha iniziato a lavorarci molto prima, rendicontando in modo volontario e aprendo cantieri interni per adattarsi gradualmente ai criteri. Risultato? Ora il processo fila liscio. Lo stesso approccio è stato adottato con la CSRD. Abbiamo anticipato già da due anni gli esercizi di doppia materialità, che non erano obbligatori. È stato un lavoro preventivo per misurare rischi, opportunità e impatti, che ha permesso di essere pronti quando la normativa è diventata effettiva. La chiave è coinvolgere tutti: il team di sostenibilità guida il processo, ma i dati arrivano dai vari dipartimenti aziendali, senza i quali non si può fare nulla. Questo significa preparare in anticipo i colleghi, chiedendo loro uno sforzo extra per adattarsi ai nuovi standard.
Immagini: Gruppo CAP