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Rehana Bi è una donna indiana di 55 anni. Quando ne aveva 16 – racconta all’emittente radiofonica Npr – è stata investita con tutta la sua famiglia da una nuvola di gas tossici. Sopravvisse, ma perse i genitori e un fratello. Fiza, di cui non conosciamo il cognome, ha invece poco più di 20 anni. Quando i giornalisti della rivista The Atlantic la raggiunsero per intervistarla, nel 2018, soffriva regolarmente di vertigini, palpitazioni, mal di testa. Fino ai 5 anni di età, spiega, non è stata capace di parlare. Nella sua stessa strada vive Obais, un tredicenne che raramente esce di casa per via delle pustole che gli ricoprono buona parte del corpo.

Ciò che accomuna le storie di Rehana Bi, Fiza, Obais e delle persone a loro vicine è la provenienza. Tutti loro vivono nei dintorni di Bhopal, una città da oltre un milione e mezzo di abitanti nello stato federato del Madhya Pradesh, in India. Lì nel 1984, esattamente quarant’anni fa, si verificò il più letale incidente industriale della storia. Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre lo stabilimento chimico della Union Carbide India, situato alla periferia di Bhopal, perse oltre 42 tonnellate di isocianato di metile, un composto utilizzato nella produzione di pesticidi. Una nube di gas tossici si propagò nell’area circostante, principalmente quartieri residenziali poveri e densamente popolati.

Le stime del governo locale parlarono di 3.787 morti nell’immediato, e di oltre 15.000 nel giro di una settimana. Cifre contestate da molte realtà della società civile, che ritengono più realistica una stima non inferiore alle 25.000 vittime. Nell’insieme, non meno di mezzo milione di persone furono esposte al gas.

3 dicembre 1984: il disastro di Bhopal

L’impianto chimico di Bhopal nasce nel 1969, in prossimità della città. Era di proprietà di Union Carbide India Limited (UCIL), sussidiaria locale della multinazionale statunitense Union Carbide Corporation (UCC). Vi si produceva il Sevin, nome commerciale per il metilcarbammato di 1-naftile, un composto chimico impiegato come insetticida. Dal 1979 la fabbrica iniziò a produrre anche isocianato di metile, una sostanza intermedia utile alla fabbricazione del Sevin che fino ad allora era stata importata dagli Stati Uniti. Sarà una fuga di isocianato di metile la causa del disastro nel 1984.

Amnesty International accuserà in seguito la proprietà di aver abbandonato materiali tossici nell’impianto, chiuso dopo l’incidente, senza provvedere alle necessarie bonifiche. Alcune organizzazioni locali, come il Bhopal Medical Appeal, sostengono che già negli anni di operatività la fabbrica avesse riversato scarti di lavorazione tossici in prossimità del sito produttivo, contaminando permanentemente suolo e falde acquifere. Sia l’azienda sia le autorità hanno contestato la pericolosità di questi rifiuti, ma l’India, scriveva nel 2019 il quotidiano britannico The Guardian, avrebbe rifiutato le proposte giunte da Nazioni Unite e governo tedesco per uno studio indipendente sugli impatti.

Nel 1984 la fabbrica, dopo un ciclo di risultati economici deludenti, aveva quasi cessato le attività, ma rimanevano grandi scorte di materiale tossico. La notte del 2 dicembre un getto d’acqua ad alta pressione raggiunse una cisterna piena di isocianato di metile. La reazione tra il composto e l’acqua aumentò la temperatura fino al punto di ebollizione. Non fermato da nessun sistema di sicurezza, il gas formatosi fuoriuscì dalle valvole di sicurezza e, spinto dal vento, si diresse verso le abitazioni vicine. Nell’impianto nessuno si accorse del fatto fino a pochi minuti prima di mezzanotte. Troppo tardi per evitare la tragedia.

“Quando aprii la porta, c’erano molte persone in piedi che tossivano. Nessuno riusciva a vedere bene, l’aria bruciava come se stessero cuocendo peperoncini”, ha rievocato Rehana Bi a Npr. I suoi ricordi drammatici sono simili a quelli di tutti gli altri sopravvissuti. “Verso mezzanotte e mezza mi sono svegliata al suono del mio bambino che tossiva. Nella penombra, vidi che la stanza era piena di una nuvola bianca. Poi iniziai a tossire, e ogni respiro sembrava come se stessi respirando fuoco”, è il racconto fatto al Guardian da una testimone.

Sulla dinamica esatta dell’incidente si è dibattuto a lungo, dentro e fuori le aule di tribunale. Union Carbide sostiene la tesi del sabotaggio, ma non è chiaro chi o perché avrebbe dovuto volere la tragedia. Kumkum Modwel, ufficiale medico presso la fabbrica di Bhopal tra il 1975 e il 1982, ha parlato della gestione dell’impianto come di “un caso studio su come non fare le cose”. Lei stessa lasciò il posto di lavoro proprio perché critica rispetto alle misure di sicurezza del sito produttivo, racconta The Atlantic. Un altro lavoratore, T. R. Chouhan, intervistato dalla stessa testata ha spiegato che “i dirigenti avevano spento un'unità di refrigerazione che doveva mantenere il serbatoio di isocianato di metile abbastanza fresco da prevenire incidenti. Uno dei tre sistemi di sicurezza presenti era fuori servizio da settimane, l'altro si era guastato giorni prima dell'incidente. Le piccole perdite erano diventate così comuni che il 2 dicembre, quando un supervisore scoprì una fuga di isocianato di metile intorno alle 23:30, rimandò la questione fino alla fine della sua pausa tè”. Benché mai riconosciuta dalla compagnia proprietaria dell’impianto, di “criminale negligenza” parleranno negli anni anche le sentenze.

Il caso legale e le matrioske societarie

Quattro anni dopo il disastro, Union Carbide e Union Carbide India si accordarono con le autorità indiane per un risarcimento di 470 milioni di dollari. I sopravvissuti e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno sempre considerato quella cifra risibile, se paragonata alle conseguenze del disastro. Ma a complicare la richiesta di ulteriori risarcimenti è sopraggiunta un’intricata serie di acquisizioni societarie e cambi di proprietà.

Union Carbide Corporation, la casa madre statunitense, venne acquistata nel 2001 da Dow Chemicals, altro gigante chimico con sede negli USA. Dow Chemicals a sua volta si fuse con DuPont nel 2017. La nuova azienda, DowDuPont, durò pochi anni: nel 2019 le due società ritornarono a essere realtà indipendenti, e Union Carbide rimase sotto l’ombrello Dow Chemical. Per questo gli attivisti chiedono che sia Dow a farsi carico delle spese mediche e di bonifica ancora necessarie. L’azienda, dal canto suo, ritiene concluse le proprie responsabilità finanziarie con gli accordi già in essere e che il dito vada semmai puntato sulla sussidiaria indiana, Union Carbide India Limited, che controllava materialmente l’impianto. Ai tempi dell’incidente, UCIL era posseduta al 51% circa da Union Carbide Corporation, che dopo l’incidente ha però venduto le proprie quote ad altre aziende. La società erede di Union Carbide India Limited si chiama ora Eveready Industries India, ma anch’essa rifiuta ogni responsabilità rispetto ai fatti.

Contattata da Materia Rinnovabile, Dow Chemicals si è limitata a spiegare che la loro compagnia “non ha mai posseduto o gestito l'impianto; esso era di proprietà e gestito da Union Carbide India Limited (UCIL). Union Carbide Corporation (che era essa stessa una società separata da UCIL) è diventata una sussidiaria di Dow Chemicals solo oltre 16 anni dopo la tragedia e 12 anni dopo che l'accordo di risarcimento di 470 milioni di dollari per Bhopal – pagato da Union Carbide Corporation e UCIL – è stato approvato dalla Corte Suprema indiana. Oggi, il sito dell'impianto è sotto il controllo del governo dello stato del Madhya Pradesh”.

Assieme all’accertamento delle responsabilità economiche sono proseguiti, lentamente, i processi. Nel 2010 un tribunale indiano condannò sette dirigenti, tutti indiani, a due anni di reclusione per gravi negligenze nella sicurezza. Al processo non era presente Warren Anderson, il proprietario di Union Carbide Corporation ai tempi del disastro. La magistratura tentò di incriminarlo, ma non venne mai estradato dagli Stati Uniti.

“Le vittime dirette di quelle tragedie hanno ricevuto un risarcimento minimo, e per ottenerlo hanno spesso dovuto aspettare tra i dieci e i venti anni. Chi è nato dopo gli eventi e ha sofferto per l’inquinamento di acqua e suolo non ha mai ottenuto nulla”, spiega a Materia Rinnovabile Rachna Dhingra, portavoce dell’International Campaign for Justice in Bhopal. “Ciò che è peggio è che nessuno si è mai fatto nemmeno un giorno di galera per questa strage”.

Bhopal oggi

Dopo quarant’anni l’impianto di Bhopal è ancora in piedi, abbandonato ma mai sgomberato. Uno studio dell’Università della California dimostra come l’esposizione al gas abbia aumentato la possibilità di tumore anche per chi, al tempo dell’incidente, era ancora in utero. Una seconda ricerca, capitanata dalla ricercatrice canadese Shree Mulay col supporto della clinica Sambhavana, allarga le indagini anche a chi non è entrato direttamente a contatto con la fuga di gas del 3 dicembre 1984. Il lavoro di revisione dei dati non è ancora stato completato, ma i risultati preliminari suggeriscono che i casi di tumore, paralisi e tubercolosi aumentino non solo in chi venne investito dalla nuvola tossica, ma anche in coloro i quali hanno usufruito abitualmente delle risorse idriche locali. A maggio del 2018 la Corte Suprema dell’India ha obbligato le autorità locali a costruire infrastrutture che assicurino il rifornimento di acqua non contaminata agli abitanti delle zone a rischio.

Tim Edwards è un fiduciario del Bhopal Medical Appeal, un'organizzazione benefica che ha cofondato un centro medico dedicato alle vittime della tragedia e che finanzia un altro centro che si occupa dei bambini di seconda generazione. “La fuga di gas è stata causata da tagli alla sicurezza e mancanza di investimenti, ma Union Carbide ha anche usato il terreno come discarica. Con o senza l’incidente del 1984, si sarebbe verificato un disastro da contaminazione”, dice a Materia Rinnovabile.

“Il responsabile dell'inquinamento è la Union Carbide, che ora è di proprietà della Dow Chemicals. Secondo il principio del 'chi inquina paga', dovrebbe essere loro responsabilità rimediare ai danni, ma la Union Carbide sostiene di non avere alcun controllo sulla sua sussidiaria, la Union Carbide India Limited. Un'assurdità, considerando che detenevano la maggioranza delle azioni al momento della fuga di gas. Un tribunale degli Stati Uniti ha dato loro ragione – e questo ci dice qualcosa sulla salute dei nostri sistemi legali. Per dare un'idea, dopo la fuoriuscita di petrolio dalla Exxon Valdez, la compagnia proprietaria ha speso 50.000 dollari per salvare un singolo uccello marino americano: è cento volte la somma di denaro che è andata alle vittime indiane del disastro di Bhopal [la Exxon spese 42 milioni di dollari per il salvataggio di 800 uccelli ndr]. C'è un certo grado di razzismo nel modo in cui questa questione è stata gestita.”

Gli attivisti insistono nell’inquadrare il caso di Bhopal come una tragedia in corso. Ma cosa servirebbe per porre fine alla questione? "Prima di tutto, accertare l'entità dei danni ambientali e sanitari. Il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) ha offerto il suo aiuto in questo senso, ma l'India non ha accettato l'offerta", continua Edwards. “In primis, servono le bonifiche”, risponde Dhingra. “Poi, punizioni esemplari per i responsabili. E, ultimo ma non per importanza, serve garantire il necessario supporto medico ed economico a chi tutt’ora soffre”.

 

Le foto in questo articolo sono di Giles Clarke, fotoreporter britannico e collaboratore di Getty Images, che nei suoi lavori ritrae il lato umano dei maggiori drammi e conflitti globali. Nel 2007 Clarke ha cominciato un progetto di fotoreportage in progress in collaborazione con il Bhopal Medical Appeal, per raccontare l’eredità tossica del disastro della Union Carbide.