L’autonomia differenziata è legge dello stato, e attende ora solo la firma di Sergio Mattarella e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Dopo il sì del Senato a gennaio, mercoledì 19 giugno è arrivato anche il via libera definitivo di Montecitorio, con 172 voti a favore, 99 contrari e un astenuto. Come sappiamo dall’inizio della legislatura, nel patto politico di maggioranza l’autonomia differenziata era l’obiettivo della Lega, così come il cosiddetto premierato è quello di Fratelli d’Italia, e la riforma della giustizia con la separazione delle carriere è preme più a Forza Italia. Sono sostanzialmente gli obiettivi storici delle forze costitutive del centrodestra italiano dal lontano 1994, anche se sono declinati su contenuti differenti (la destra tradizionalmente voleva il presidenzialismo, la vecchia Lega Nord puntava sul federalismo) e soprattutto in forme differenti.
Il premierato è contenuto in una legge costituzionale, e dovrà subire una serie di passaggi complessi per poter arrivare a modificare la Carta Costituzionale (compreso il referendum che chiamerà in causa gli italiani). L’autonomia differenziata è invece una legge ordinaria. E questo è un punto chiave. Non determina da subito alcun effettivo trasferimento di competenze alle regioni, ma si limita a indicare un percorso e le regole che le regioni dovranno seguire nel negoziare col governo e col Parlamento l’attribuzione di poteri e prerogative.
La legge formalmente si propone soltanto di attuare il Titolo V della Costituzione − varato dal centrosinistra nel lontano 2001 − e in 11 articoli definisce le procedure legislative e amministrative per l’applicazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. In particolare, indica le procedure per definire le intese tra lo stato e quelle regioni che vorranno chiedere l’autonomia differenziata.
Autonomia differenziata e referendum
Si tratta di un punto chiave, dicevamo, per almeno tre buone ragioni, che rivelano anche la complessità e l’abilità della mente che c‘è dietro alla legge, ovvero il senatore Roberto Calderoli, attualmente ministro per gli affari regionali e le autonomie nel governo Meloni, ma in passato ministro per le riforme istituzionali e per le semplificazioni, oltre che autore della famigerata legge elettorale “Porcellum”. La prima ragione è che l’essere una legge ordinaria evita la necessità di dover passare per un referendum costituzionale.
La seconda è che l’applicazione effettiva della legge, e anche i suoi effetti concreti e materiali, sono oggi vaghissimi e in futuro potenzialmente amplissimi. Per un bel po’ di tempo non succederà nulla, ma alla fine del percorso le regioni che porteranno a termine la richiesta di autonomia differenziata − che prevede per alcune materie la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè i servizi minimi che lo stato deve garantire in ogni parte del suo territorio − potranno essere in pratica repubbliche indipendenti in grado di decidere su ben 23 materie. Tra queste ci sono la sanità, l’istruzione, l’ambiente, l’energia, lo sport, i trasporti, il commercio estero, la cultura.
Il terzo punto importante − che in questi giorni ancora non è emerso nella sua interezza − è che per come è stata costruita, la legge sull’autonomia differenziata probabilmente è in grado di sventare il rischio di un referendum abrogativo “classico”, quello per il quale bisogna raccogliere le firme o chiamare in causa 5 regioni, e che in queste ore è già stato annunciato da alcune forze di opposizione. Autorevoli costituzionalisti spiegano che la legge Calderoli è una legge di spesa, e sulle leggi di spesa non è possibile in base alla Costituzione intervenire con referendum abrogativi. Se anche venissero raccolte le firme in calce a un quesito referendario abrogativo, è probabile che la Consulta finirebbe per bocciarlo.
Cosa prevede l’autonomia differenziata
Sul versante opposto, invece, chiariscono gli addetti ai lavori, bisogna considerare che la riforma Calderoli potrebbe richiedere tempi non brevi per l’iter di richiesta e approvazione dell’autonomia differenziata. Inoltre, su tredici materie bisogna prima definire e soprattutto trovare i soldi per finanziare i LEP, i livelli di servizio minimo uguali per tutti i cittadini che la norma prevede per prevenire il rischio che l’autonomia cristallizzi o persino aumenti le divergenze territoriali tra le aree più ricche del paese e quelle più povere. Non è un segreto che il governo si trovi in una situazione di grande ristrettezza di bilancio, e ci sono soltanto 24 mesi a disposizione del governo per varare i decreti legislativi che determineranno livelli e importi dei LEP. Infine, nessuno naturalmente impedisce a un futuro Parlamento di varare una nuova legge ordinaria sostitutiva della riforma Calderoli.
Le materie per cui la riforma impone i LEP obbligatori sono le norme generali sull’istruzione; la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; la tutela e sicurezza del lavoro; l’istruzione; la ricerca scientifica e l’innovazione; la salute; l’alimentazione; l’ordinamento sportivo; il governo del territorio; i porti e gli aeroporti civili; le grandi reti di trasporto e di navigazione; l’ordinamento della comunicazione; la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia; la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali.
I LEP dovranno essere definiti in dettaglio da una Commissione tecnica dei fabbisogni standard nell’arco di due anni. Otto temi possono invece essere ceduti rapidamente alle regioni che lo vorranno: rapporti internazionali delle regioni con l’Unione Europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario.
Ricordiamo che la riforma prevede che l'autonomia alla regione che la chiede sarà concessa solo successivamente alla determinazione dei LEP, e nei limiti delle risorse rese disponibili per i LEP in legge di bilancio. Stato e regioni, una volta avviati i negoziati, avranno tempo cinque mesi per arrivare a un accordo che dovrà passare sia in Consiglio dei ministri, sia in Conferenza stato-regioni sia in Parlamento. Le intese potranno durare fino a 10 anni e poi essere rinnovate, o terminare prima con un preavviso di almeno 12 mesi. E c’è anche una clausola di salvaguardia che consente al governo di usare il "potere sostitutivo”, e cioè sostituirsi agli enti locali se si rivelano inadempienti sulle materie per le quali hanno ottenuto l’autonomia, o se ci sono inadempienze rispetto a trattati sovranazionali o pericoli per la sicurezza pubblica inclusa la garanzia di diritti civili e sociali e "occorra tutelare l'unità giuridica o quella economica della Repubblica".
Le conseguenze dell’autonomia differenziata
Obiettivamente non è poca cosa, e ci sono rischi seri di complicazioni, come nel caso delle casse rurali e affini: le regioni come si coordineranno con la BCE, che stabilisce le regole per tutte le banche dell’Eurozona? E le tutele ambientali? Una regione potrebbe abbassare o innalzare i limiti per la presenza di determinate sostanze chimiche nell’ambiente. Teoricamente potrebbero esserci 20 limiti differenti per ogni regione. Stesso discorso per le Soprintendenze ai beni culturali. Oppure ancora, le graduatorie regionali per gli insegnanti, da anni concupite da Lombardia e Veneto.
Altra grande novità è l’arrivo del sistema della compartecipazione al gettito IVA e IRPEF maturato nella singola regione. Una parte delle risorse incassate da una regione potrebbero essere usate per finanziare le competenze ricevute dallo stato. La devolution potrebbe riguardare anche le opere infrastrutturali come porti, aeroporti, grandi reti ferroviarie e stradali, che finora sono gestite con gare di competenza esclusiva del ministero delle infrastrutture, e su cui potenzialmente le regioni potrebbero dire la loro. E le reti elettriche di trasmissione e distribuzione? Avremo venti Terna?
Le opposizioni sostengono che la riforma aumenterà il divario tra le regioni italiane, in particolare tra Nord e Sud, soprattutto in settori strategici ed essenziali come la sanità. Ma a criticare la riforma c'è anche un report di Bankitalia dello scorso luglio, che ad esempio punta il dito su quanto è accaduto durante la pandemia di Covid, con un pesante effetto negativo della frammentazione regionale a livello sanitario. Per Bankitalia, inoltre, con questa riforma lo stato perderebbe il controllo di una parte rilevante della spesa pubblica, con il compito, tra gli altri, di dover intervenire, più di quanto faccia ora, in caso di dissesto delle finanze regionali. Penalizzata sarebbe anche la produttività, visto che con il decentramento dei servizi e la inevitabile moltiplicazione per venti di funzioni identiche si perderebbe il vantaggio delle economie di scala, aumentando le inefficienze.
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