Notoriamente gli effetti dei cambiamenti climatici non colpiscono allo stesso modo tutti i territori e le popolazioni che li abitano. La vulnerabilità e le possibilità di adattamento sono infatti determinate da molteplici fattori quali la posizione geografica, lo sviluppo socioeconomico e l’uso sostenibile o meno delle risorse. La questione è complessa tanto che vi è il rischio di lasciare fuori dall’equazione alcuni elementi chiave come per esempio le responsabilità coloniali, storiche e attuali. Ed è proprio associando in ottica multidisciplinare il colonialismo al cambiamento climatico che nasce il concetto del colonialismo climatico.

L’idea di un colonialismo climatico, sebbene ancora di nicchia, è già dibattuta in ambito accademico come dimostra la recente pubblicazione Climate coloniality and settler colonialism: Adptation and indigenous futurities, il cui tentativo è quello di dare il giusto spazio alle logiche coloniali nelle strategie di adattamento. Secondo gli autori, infatti, le attuali strategie imporrebbero soluzioni “universalizzanti” perpetuando così una nuova forma di colonialismo. Si tratterebbe di una dinamica diversa rispetto a quella descritta dai libri di storia, caratterizzata da ambizioni imperialiste, occupazioni militari, espropri e saccheggi delle risorse; più simile invece “a una struttura di potere invisibile”. Ma facciamo un po' di chiarezza.

Clima e colonialismo, oltre l’IPCC

Il nesso fra colonialismo e vulnerabilità è un concetto nuovo anche per l’IPCC che solo dal 2022, con il sesto rapporto, introduce il colonialismo nel dibattito per il clima. Si legge che “la vulnerabilità degli ecosistemi e popolazioni al cambiamento climatico” è determinata da “modelli storici e attuali di iniquità come il colonialismo”. Il risultato è il riconoscimento di un fenomeno che non solo è, ed è stato, un driver del cambiamento climatico ma anche un fattore che esacerba la vulnerabilità delle comunità.

Questa narrazione, tuttavia, soddisfa solo in parte gli autori della pubblicazione citata. Pur riconoscendo il ruolo cruciale dell’IPCC nella “produzione e comunicazione di conoscenza sul clima” e nell’incentivare i policy makers a prendere decisioni concrete, Faisal et al. sostengono la tesi secondo la quale il “sapere climatico” sarebbe orientato verso una certa “scienza occidentale” favorendo così studiosi e politiche “eurocentriche”, “moderniste” e “tecnocratiche” a discapito di soluzioni ed esigenze della così detta “periferia del mondo”. Nonché di quelle popolazioni più vulnerabili e allo stesso la meno responsabili del riscaldamento globale. Secondo gli autori sarebbe proprio questa “imposizione culturale” a dar vita al cosiddetto colonialismo climatico, con il risultato di riaprire le ferite coloniali del passato e monopolizzare il ventaglio delle soluzioni di adattamento.

Faisal Bin Islam, antropologo geografico e coautore della ricerca, spiega a Materia Rinnovabile come “i processi politici alla base del cambiamento climatico, tra cui la colonizzazione imperiale e le occupazioni coloniali, il razzismo e la segregazione razziale, e il conseguente capitalismo globale, abbiano modellato il modo in cui pensiamo e agiamo sul mondo, compresa la conoscenza che detta la nostra concezione del cambiamento climatico”.
A subirne le conseguenze è “in gran parte la popolazione del Sud del mondo, che ha una lunga storia coloniale”, ma sono anche le comunità indigene che “hanno a che fare con una colonizzazione perpetua”, come nel caso dei nativi americani che abitano tutt’ora il suolo statunitense.

Un colonialismo della conoscenza

Gli stessi fenomeni coloniali avrebbero così creato un colonialismo 2.0, che si appropria della conoscenza e “definisce futuri, epistemologie, strutture di governance globale, inquadramenti discorsivi, soluzioni immaginate e interventi”, marginalizzando narrazioni e interessi diversi.

Ma come prende forma il colonialismo climatico? Vi sono diversi fattori che contribuiscono a plasmare il fenomeno. Il così detto “white saviorism” per esempio contribuirebbe a rappresentare, in modo distorto, le popolazioni indigene o colonizzate come dei racial others”, nonché popolazioni svantaggiate e incapaci di far fronte a problematiche quali adattamento e mitigazione senza le soluzioni occidentali. Anche il concetto stesso di Antropocene favorirebbe questa forma di colonialismo. Ragionare in termini di Antropocene “implica che tutti gli umani condividano la responsabilità del cambiamento climatico”. Ma se da una parte è vero, dall’altra favorirebbe una ipersemplificazione del problema, escludendo dal dibattito le responsabilità climatiche e coloniali oltre che alle idee alternative.

Secondo Faisal, infatti, chi detiene e produce conoscenza reclama anche un certo grado di potere: “Le persone e gli esperti che possiedono le conoscenze per problematizzare una situazione particolare, nel nostro caso il cambiamento climatico, hanno anche la capacità di raccomandare soluzioni basate sulla propria concettualizzazione e competenza limitate”. La proposta dominante per l’adattamento e la mitigazione è di fatto occidentale e “sproporzionatamente sbilanciata verso una comprensione tecnocratica del cambiamento climatico, che quindi può solo produrre soluzioni tecnocratiche”.

L’alternativa della tribù Lenape

Ma quali sono le idee alternative? Se le “società non indigene” percepiscono il cambiamento climatico come una minaccia esterna, le società indigene e colonizzate hanno una concezione profondamente diversa: la vulnerabilità non sarebbe altro che “una intensificazione del cambiamento ambientale indotto dalle colonie” e pertanto una materia incomprensibile senza considerare “lo sconvolgimento dello stile di vita indigeno” portato dal colonialismo. Il nocciolo della questione da questa prospettiva non è il cambiamento climatico in sé, bensì l’approccio coloniale in quanto fattore scatenante. La miglior strategia di adattamento? La restituzione delle terre occupate.

Questo il punto di vista di Chief Coker, capo della tribù indiana Lenape del Delaware, uno di coloro che in gergo vengono chiamati custodi della Terra”. Coker argomenta così il proprio pensiero a Faisal e agli autori del report: “Quando parliamo di cambiamenti climatici indotti dall’uomo, tendiamo a individuarli nell’uso di combustibili fossili e nella rivoluzione industriale. E io voglio lanciare l’idea (…) che il cambiamento climatico indotto dall’uomo, come il rapido riscaldamento e la rapida creazione di condizioni inospitali per la vita, sia iniziato proprio con il periodo coloniale”.
Interessante anche il punto di vista sulla rivoluzione tecnologica. L’attenzione non è rivolta ad un costante miglioramento dell’efficienza nel tentativo di mantenere in vita un’economia sempre innovativa e in crescita, bensì al modo in cui la tecnologia viene impiegata. “Credo che se avessimo concesso agli Indiani d'America il beneficio della tecnologia, oggi saremmo in una situazione molto diversa. Non staremmo continuando a colonizzare il mondo”, afferma Chief Coker.

Affrontare la complessità

Spaziare fra clima, colonialismo, Antropocene, economia e tecnologia non è una sfida facile, ma forse è una necessità per fronteggiare questioni complesse come la crisi climatica. Nel tentativo di comprendere la realtà che ci circonda, tenere un atteggiamento critico verso paradigmi e soluzioni mainstream non significa necessariamente essere ostili verso il nostro sistema economico o addirittura contro le indicazioni dell’IPCC (guai se non esistessero!), potrebbe al contrario ampliare la nostra comprensione del mondo e, perché no, contribuire a trovare una strada per la sostenibilità più efficace e maggiormente condivisa a livello globale. Non esiste infatti uno sviluppo sostenibile che non sia inclusivo, come non esiste una sostenibilità ambientale senza quella sociale.

Immagine: Calvin Cowakces (Pexels)