Ogni anno è sempre così: negli ultimi giorni di dicembre si scatena una frenetica corsa contro il tempo per approvare la manovra di bilancio entro la fine dell’anno, ed evitare lo spauracchio dell’esercizio provvisorio. Anche nel 2024 governo e maggioranza di centrodestra − ma è stato così anche negli anni passati, e la dice lunga sulla qualità e l’efficienza del processo parlamentare in Italia − si sono ridotti all’ultimo. Colpa delle tensioni politiche all’interno della maggioranza, del meccanismo parlamentare che spinge chiunque voglia tentare di far passare una misura qualsiasi nella manovra a provare finché possibile a inserire emendamenti importanti o solo mirati a soddisfare qualche interesse grande o piccolo. E naturalmente colpa soprattutto del fatto che nel bilancio pubblico non ci sono soldi, e quindi l’Esecutivo non ha margini per accontentare chi vorrebbe premiare.
Anche quest’anno nei diversi provvedimenti che verranno approvati dalla Camera prima e dal Senato poi ci sono misure che fanno discutere. Molte di queste riguardano le regole che fanno girare il mercato del lavoro, che peraltro è stato profondamente cambiato da un altro provvedimento appena diventato legge, il cosiddetto “collegato lavoro” messo a punto dalla ministra del lavoro, Marina Calderone, che ha reso meno stringenti molte norme a favore dei lavoratori e reso più agevole la vita ai loro datori di lavoro. Una novità che fa molto discutere è il giro di vite sulla Naspi, ovvero l’indennità di disoccupazione che è diventata un diritto universale per tutti i lavoratori dipendenti con il Jobs Act di Matteo Renzi del 2015. Nella manovra di bilancio il governo ha inserito una norma che dice mirata a contrastare un “fenomeno elusivo”, e che di fatto toglierà l’assegno mensile di disoccupazione a chi viene licenziato, poi trova un altro lavoro, e viene licenziato prima di aver superato il traguardo dei 3 mesi e una settimana di lavoro, ovvero 13 settimane.
Che cos’è la Naspi, quanto dura e a chi spetta
Un passo indietro, e ricordiamo che cos’è la Naspi. Si tratta di un sostegno sociale, un assegno mensile che spetta ai lavoratori dipendenti che vengono licenziati dal datore di lavoro o per i quali è scaduto il contratto, cioè quelli che devono fare i conti con le cosiddette “dimissioni involontarie”. In questi casi la Naspi spetta a tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro subordinato, che sia nel pubblico o nel settore privato, a tempo indeterminato o con un contratto a termine o di apprendistato. Niente da fare per chi invece passa per “dimissioni volontarie”.
L’ammontare dell’assegno mensile è pari al 75% dello stipendio medio percepito dal lavoratore negli ultimi quattro anni, con un massimo per il 2024 di 1.550 euro lordi (circa 1.200 netti), e dal sesto mese perde il 3% del suo valore mensile. Dura per la metà delle settimane lavorate negli ultimi quattro anni per un massimo di due anni (quindi, dura due anni per chi lavora da quattro anni o più, e sei mesi per chi era assunto da dodici). Tutta la spesa è a carico dell’INPS e, in ultima analisi, del contribuente. Peraltro, chi è in Naspi riceve i contributi pensionistici “figurativi”, cioè senza che il datore di lavoro o la persona stessa debbano effettivamente versarli.
Naspi e dimissioni volontarie: le criticità
Insomma, non è che si tratti proprio di un terno al Lotto. È un aiuto molto, molto temporaneo, e in altri paesi europei (dove peraltro i servizi dell’impiego permettono veramente di trovare un altro posto, mentre da noi questi servizi per ora sono simbolici) l’assegno è più cospicuo e duraturo. Detto questo, l’Italia ha la tradizione che ha, e dove c’è una legge c’è anche un inganno. Basti pensare a quello che è successo al sacrosanto (come intenzioni e obiettivi) Superbonus, che ha visto ogni sorta di abuso e di rincaro del costo dei lavori edili. E, dunque, anche per la Naspi irregolarità e abusi esistono: per esempio può succedere che chi prende l’assegno cerchi di lavorare in nero.
Capita anche che un lavoratore intenzionato a cambiare azienda, invece di dare le dimissioni volontarie che non danno diritto a Naspi, si metta d’accordo col datore di lavoro per farsi licenziare, e incassare il sussidio. In qualche sporadico caso è anche successo che, per farsi licenziare da un datore di lavoro recalcitrante, qualche lavoratore abbia trovato l’espediente di non presentarsi al lavoro ingiustificatamente per 15 giorni, farsi così licenziare per ragioni disciplinari, e beccarsi la Naspi. In altri casi i datori di lavoro, per evitare di pagare i contributi all’INPS, preferiscono licenziare, far avere la Naspi al dipendente, poi riassumerlo, e poi licenziarlo di nuovo dopo pochi giorni.
Cosa cambia per la Naspi nel 2025
Le due modifiche legislative volute dal governo sulla carta mirano a reprimere alcuni di questi abusi. Nel “collegato lavoro” si è stabilito che chi abbandona il posto di lavoro per 15 giorni senza dare notizia subisce dal datore di lavoro un recesso per dimissioni volontarie, e addio Naspi. Stessa sorte per la girandola di assunzioni e licenziamenti: niente Naspi a chi perde un posto di lavoro stabile, a tempo indeterminato, ne ritrova un altro e poi viene licenziato di nuovo senza aver versato 13 settimane di contributi. Ovvero aver lavorato almeno tre mesi e una settimana.
Peccato che questa stretta, che per la ministra Calderone è solo una misura anti furbetti, obiettivamente rappresenti una fregatura per chi effettivamente viene licenziato due volte − e involontariamente − nel giro di meno di tre mesi. Alla fine solo costui o costei, che sono persone che più meriterebbero un sostegno, rimangono col cerino in mano e senza sussidio.
È vero che si tratta di novità che dicono poco o nulla ai tantissimi lavoratori che − volontariamente, o involontariamente − sfacchinano senza nessun contratto di lavoro subordinato. Certo, essere lavoratori autonomi assicura un poco di libertà in più, ma spesso e volentieri chi lavora da partita IVA (esclusi “ricchi”, imprenditori o professionisti per davvero) non si rende nemmeno conto dei vantaggi indubbi − salariali e non solo − di cui non può usufruire, come la Naspi. Ma non ci pare una buona ragione per togliere questi diritti a tutti i lavoratori, e assimilare tutto il mondo del lavoro a quello autonomo, dove l’autonomia si traduce solo in precarietà e instabilità.
Immagine: Palazzo Chigi