La bioeconomia è un fattore potente di innovazione e resilienza. È quanto rivela un’indagine condotta dal cluster della bioeconomia circolare Spring, Unioncamere e Istituto Tagliacarne, che è stata presentata lo scorso 27 marzo a Roma, in un convegno a cui ha preso parte anche il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin.
Lo studio, il primo diretto a livello territoriale sulle imprese italiane e sulle filiere produttive della bioeconomia, è stato svolto su un campione di 2.000 imprese nel periodo 2022-2023 e ha permesso di fotografare caratteristiche e orientamenti delle imprese della bioeconomia, un meta-settore che, secondo il rapporto La bioeconomia in Europa realizzato da Intesa Sanpaolo in collaborazione con Spring, incide per l’11% sul valore della produzione dell’economia nazionale.
Tra i dati più salienti forniti dall’indagine emerge come la transizione dal fossile alla materia prima biologica sia legata alla volontà di innovare il processo produttivo (64,8% degli intervistati), alla richiesta del mercato di riferimento (67%) e soprattutto sia considerata una evoluzione naturale del settore (circa il 75% del campione). Si tratta, perciò, di una strada obbligata per l’industria italiana che intende restare competitiva e generare utili, riducendo al contempo il proprio impatto ambientale. Le imprese bio-based, infatti, registrano migliori performance rispetto alle non bio-based sia in termini di fatturato (il 50,5% delle imprese bio ha registrato un aumento del fatturato nel 2022 contro il 42,8% delle non bio) sia in termini di resilienza (il 34,8% delle imprese bio ha superato nel 2022 i livelli produttivi pre-Covid contro il 25,1% delle non bio).
Un altro dato significativo riguarda l’associazione forte fra transizione verde e transizione digitale che caratterizza le imprese bio-based: il 57% delle imprese indagate ha investito nelle tecnologie 4.0 nel periodo 2017-2021 e/o prevedeva di farlo nel periodo 2022-2024 (contro il 45,4% delle imprese non bio-based). Il 68,1% delle imprese bio-based (contro il 36,6% delle non bio-based) ha investito in processi e prodotti a maggior risparmio energetico e idrico e/o a minore impatto ambientale. L’anima verde delle imprese bio-based trova riscontro anche in due evidenze: il 20,7% delle imprese (contro il 6,5% delle non bio-based) affida la gestione della sostenibilità ambientale a una o più figure preposte (manager della sostenibilità, comitato sostenibilità, comitato rischi e sostenibilità); il 15,8% delle imprese biobased (contro il 3,9% delle non bio-based) redige una rendicontazione di sostenibilità.
Un altro dato saliente, infine, è la grande attenzione riservata dalle imprese protagoniste della bioeconomia al capitale umano: oltre il 55% delle imprese investe in attività che favoriscono la salute e il benessere dei lavoratori, il cosiddetto welfare aziendale, e la conciliazione casa-lavoro (contro il 42,6% delle imprese non bio-based). Ma non solo: il capitale umano viene costantemente formato per essere in grado di affrontare le molteplici sfide rappresentante dalla transizione ecologica e dall’innovazione tecnologica (oltre il 62% contro il 55% delle imprese non bio-based).
Le imprese della bioeconomia sono del resto realtà con una forte vocazione a ricerca a sviluppo (R&S). Oltre il 60% di queste imprese ha effettuato investimenti in R&S nel periodo preso in esame, con una elevata capacità di depositare nuovi brevetti e un approccio basato sul concetto di open innovation (quasi il 67% delle imprese bio-based contro il 48,6% delle imprese non bio-based). “La loro crescita – ha affermato l’ex ministro Franco Bassanini, oggi presidente della Fondazione Astrid e promotore della presentazione romana – è una buona notizia per il Paese: non solo perché direttamente concorrerà ad aumentare la produttività della nostra economia, ma anche per l’effetto di trascinamento che può svolgere nei confronti di quei comparti del sistema produttivo che ancora stentano a comprendere i vantaggi di una riconversione verso modelli che sfruttino a pieno le opportunità della doppia transizione e che investano su ricerca e innovazione.”
La bioeconomia è da tempo stata individuata a livello europeo come un pilastro del Green Deal. E in questa direzione va anche la recente comunicazione della commissione guidata da Ursula von der Leyen, Building the future with nature: Biotechnology and Biomanufactoring in the EU, che indica 8 azioni per supportare appieno l’innovazione realizzata dall’impiego delle biotecnologie industriali nei processi produttivi. Secondo Bruxelles, è necessario favorire una semplificazione del quadro regolatorio e velocizzare l’accesso al mercato per i bioprodotti; supportare adeguatamente lo scale-up delle tecnologie e favorire l’impiego dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi, con un significativo incoraggiamento degli investimenti privati e pubblici e una revisione dei sistemi di analisi del ciclo di vita dei prodotti per non penalizzare i bioprodotti innovativi rispetto agli omologhi di derivazione fossile. Occorre, in definitiva, rivedere il sistema di analisi e di regolamentazione della bioeconomia in Europa e in tale quadro si inserisce pure l’annunciata revisione della strategia europea entro la fine del 2025.
Tutti temi, questi, che sono stati affrontati anche dai numerosi stakeholder intervenuti il 27 marzo a Roma, tra cui in rappresentanza del mondo bancario Intesa Sanpaolo e di quello produttivo il gruppo Eni. Nelle sue conclusioni il ministro Pichetto Fratin ha sottolineato come la transizione verso la bioeconomia sia un percorso obbligato per conciliare lo sviluppo economico con la sostenibilità ambientale. Le sfide sono numerose e gli interessi in gioco molteplici. L’Italia farà in modo di non perdere una leadership storica faticosamente guadagnata in questo settore.
Immagine: Anastasia Gorshkova, Unsplash