La Norvegia aprirà le proprie acque territoriali al deep sea mining, l’estrazione di minerali e metalli dai fondali abissali. L’annuncio arrivato la scorsa settimana – paradossalmente il giorno dopo l’adozione da parte delle Nazioni Unite del Trattato dell’Alto Mare – è un duro colpo per il crescente movimento di scienziati, attivisti e società civile che chiede una moratoria internazionale per fermare quello che potrebbe diventare il prossimo disastro ecologico.
L’estrazione mineraria in acque profonde pone infatti gravissimi rischi per ecosistemi estremamente delicati e ancora in buona parte sconosciuti, che sono cruciali per l’equilibrio del pianeta. Ma nonostante le voci sempre più preoccupate che si levano dagli scienziati e la pronta condanna dal mondo dell’ambientalismo (“una delle peggiori decisioni per l’ambiente che la Norvegia abbia mai preso”, ha dichiarato il WWF), il governo norvegese si dice convinto che i metalli nelle profondità marine siano indispensabili per la transizione ecologica del Paese.
Pur operando nelle sue acque territoriali, e non avendo quindi l’obbligo di rendere conto alla comunità internazionale, la Norvegia creerà probabilmente con la sua decisione un pericoloso precedente.
Tutto il rame e lo zinco (e non solo) in fondo al Mar di Norvegia
L’annuncio del governo norvegese è arrivato il 20 giugno. “Abbiamo bisogno di minerali per realizzare la transizione ecologica – ha dichiarato, in una nota sul sito del governo, il Ministro del Petrolio e dell’Energia Terje Aasland - Attualmente le risorse sono controllate da pochi Paesi, il che ci rende vulnerabili. I minerali dei fondali marini possono diventare una fonte di accesso ai metalli essenziali e nessun altro Paese è in una posizione migliore per assumere un ruolo guida nella gestione di tali risorse in modo sostenibile e responsabile. Il successo sarà cruciale per la transizione energetica mondiale a lungo termine”.
Le aree interessate, parte della piattaforma continentale norvegese, si troverebbero nel Mare di Groenlandia, nel Mare di Norvegia e nel Mare di Barents, per un’estensione di circa 280.000 km quadrati, quasi quanto la superficie dell’Italia.
Se in altre parti del mondo, e in particolare nelle acque internazionali dell’Oceano Pacifico, il deep sea mining sarebbe focalizzato soprattutto sulla raccolta dei noduli polimetallici, cioè pepite di roccia contenenti alte percentuali di metalli preziosi, nei mari norvegesi si pensa invece di andare ad estrarre i minerali direttamente dalla crosta o dai solfuri polimetallici (formazioni create dalla fuoriuscita di acque calde mineralizzate). È qui infatti che il Norwegian Petroleum Directorate -NPD ha individuato consistenti depositi di rame, zinco, cobalto e terre rare. Secondo lo studio rilasciato in gennaio, nei solfuri ci sarebbero circa 38 milioni di tonnellate di rame (quasi il doppio della quantità estratta ogni anno in tutto il mondo) e 45 milioni di tonnellate di zinco. Nella crosta oceanica si troverebbero invece 24 milioni di tonnellate di magnesio e 3,1 milioni di tonnellate di cobalto, e inoltre quantità variabili di terre rare come cerio, neodimio, ittrio e disprosio, alcune delle quali indispensabili per le turbine eoliche e i motori elettrici.
Deep sea mining per la transizione energetica: ma a che costo?
Non sorprende dunque che la Norvegia, attualmente principale produttore di petrolio dell’Europa occidentale, si stia organizzando per convertire la sua industria estrattiva, approfittando della posizione di avanguardia che al momento avrebbe nel campo del deep sea mining. “L’estrazione mineraria potrebbe diventare una nuova e importante industria per la Norvegia”, dichiara il Ministero.
Il problema – enorme – sono però gli impatti.
Naturalmente, il governo norvegese si è affrettato a precisare che qualsiasi estrazione mineraria sui fondali sarà approvata solo se i titolari della licenza dimostreranno di poterla condurre “in modo sostenibile e responsabile”.
Ma il punto - come ci hanno insegnato fino ad ora le controversie sul deep sea mining in acque internazionali - è che sappiamo ancora troppo poco sugli ecosistemi abissali per poter stabilire con ragionevole certezza cosa sia sostenibile e cosa no. E l’apertura della Norvegia a una pratica di sfruttamento industriale che, per il momento, è ancora proibita nei mari al di fuori della giurisdizione nazionale, rischia di creare un precedente molto pericoloso per l’ambiente.
“Dare il via all'estrazione mineraria in acque profonde nell'Artico sarebbe criminale – ha dichiarato Louisa Casson, attivista di Stop Deep Sea Mining presso Greenpeace International - La Norvegia parla di guidare il mondo, ma chiaramente non ha idea della crescente opposizione a questa pratica. Le aziende in prima linea nella transizione ecologica stanno già chiedendo di fermare questa industria distruttiva, così come i cittadini e i governi dall'Europa al Pacifico".
Sarebbe paradossale se, per alimentare la transizione energetica che speriamo ci salvi dal disastro climatico, compromettessimo l’equilibrio del più grande ed efficiente sistema di regolazione del clima del pianeta: l’oceano.
Immagine: villaggio di Hamnoy, Norvegia (ph Envato Elements)