Questa mattina, lunedì 1 luglio, il ministro dell’Ambiente e Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha partecipato alla cerimonia per il completamento dei magneti superconduttori di ITER, il mega reattore di ricerca per la fusione nucleare in via di costruzione a Cadarache, in Francia.
Pubblichiamo per l’occasione l’intervista al direttore generale di ITER, Pietro Barabaschi, uscita sul numero 50 di Materia Rinnovabile.

 

Riprodurre l’energia delle stelle qui, sulla Terra. Per poi intrappolarla e utilizzarla.
Per decenni gli scienziati si sono interrogati su come ricreare in laboratorio le condizioni che, sul Sole, determinano la fusione degli atomi di idrogeno e la loro trasformazione in elio, generando un’enorme quantità di luce e calore. Che l’esperimento sia realizzabile è in realtà cosa nota sin dagli anni ‘50, quando per la prima volta, nell’ambito della ricerca a scopi militari, la fusione venne utilizzata in un test della Bomba H.
Ma sfruttare l’energia di fusione – teoricamente illimitata e quasi senza scorie – a scopi civili presenta sfide ben più ardue, che partono dalla fattibilità delle tecnologie, per poi spostare lo sguardo molto in avanti nel tempo sull’affidabilità e scalabilità dei sistemi. Se i “record” sul guadagno netto energetico tramite fusione, annunciati ormai con una certa frequenza da vari reattori sperimentali, hanno rinvigorito la speranza di raggiungere il “Sacro Graal dell’energia”, le tempistiche tuttavia continuano a essere imprevedibili. Ma questo non ferma l’interesse economico: negli ultimi anni gli investimenti privati nella ricerca sono aumentati, superando, secondo la Fusion Industry Association, i 6,2 miliardi di dollari nel 2022.
E cresce anche l’impegno dei governi, come dimostra il mega progetto ITER, acronimo di International Thermonuclear Experimental Reactor, che in totale dovrebbe ricevere 20 miliardi di euro in vent’anni da un consorzio internazionale di sette partner pubblici: Unione europea, Cina, India, Giappone, Russia, Corea del Sud e Stati Uniti (fino al 2023 c’erano anche Regno Unito e Svizzera).
Per farci raccontare gli obiettivi di ITER, abbiamo raggiunto il direttore generale Pietro Barabaschi nel suo ufficio a Cadarache, nel sud della Francia, proprio sul sito dove sta sorgendo quello che sarà il più grande impianto per la fusione nucleare del mondo.

Com’è nato ITER?

L’idea nasce a metà degli anni ‘80, da un incontro fra Gorbaciov e Reagan, come progetto di pace con un obiettivo molto ambizioso: dimostrare la fattibilità o feasibility dell'energia di fusione a scopo civile. Il progetto è stato poi allargato all’Euratom (che rappresenta gli Stati europei) e agli altri membri. Negli anni ‘90 c’è stata la fase di progettazione, seguita poi da una battuta d’arresto perché bisognava trovare un sito per la costruzione. Una volta individuato il luogo adatto in Francia, tra il 2006 e il 2007 è stato siglato l’accordo per istituire un organismo internazionale vero e proprio, di cui io sono il direttore generale dal 2022. L'obiettivo di ITER è realizzare qui a Cadarache una grande struttura di ricerca.

Come viene finanziato il progetto?

Non ha finanziatori privati, è tutto finanziato pubblicamente. Da un punto di vista pratico, il progetto si basa su forniture in kind, cioè “in natura”, suddivise fra i sette stakeholder. C'è un budget centrale per una serie di attività relative al disegno e all'assiemaggio, e poi ci sono delle agenzie nazionali che si occupano della fornitura dei componenti. Ma siccome sono tutti componenti first of a kind, cioè mai realizzati prima, la cooperazione è chiave.
A Cadarache abbiamo circa 1.200 dipendenti fissi dell'organismo internazionale, altre 300-400 persone che vanno e vengono, e circa 4.000 contractors che lavorano nella fase realizzativa.

Vista la grande internazionalità del consorzio, può succedere che le tensioni geopolitiche di questo periodo influenzino l'andamento delle ricerche?

Direi di no. Nonostante le forti differenze culturali e le attuali tensioni, devo dire che è sorprendente, in modo positivo, come si rimanga tutti abbastanza allineati su un obiettivo importante e si cerchi di far funzionare il progetto.
Poi ci sono delle complessità organizzative che trascendono il problema geopolitico attuale. Si può facilmente immaginare che organizzare così tante contribuzioni, con culture professionali diverse e varie visioni su come si realizzano i grandi progetti, sia una sfida non da poco. Una sfida che però offre l’opportunità di imparare a fare le cose insieme: se vogliamo, è anche un esperimento di politica sociale.

Partiamo dalle basi: come si fa a produrre la fusione nucleare sulla Terra?

A differenza della fissione, che può essere fatta essenzialmente a temperatura ambiente, la reazione di fusione ha bisogno di mantenere i reagenti ad alta densità e ad alta temperatura.
Sul Sole c'è un’altissima densità, causata da forze gravitazionali molto intense, e questa determina la fusione fra nuclei di idrogeno, che sostanzialmente è l’origine della maggior parte dell’energia prodotta sulla nostra stella. Sulla Terra questo non può avvenire e così la fusione deve essere prodotta a densità molto più basse con altri reagenti, cioè il trizio e il deuterio, due isotopi dell’idrogeno che sono più facili a fondersi.
Il problema è che i nuclei dei reagenti sono entrambi caricati positivamente, il che significa che esercitano reciprocamente una forza repulsiva: in pratica non vogliono avvicinarsi. Dobbiamo dunque fare in modo che si avvicinino abbastanza da collidere; a quel punto si fonderanno, generando energia sotto forma di flussi di neutroni. Perché questo avvenga, è necessaria una temperatura molto elevata, fra i 100 e i 150 milioni di gradi centigradi.

E come si arriva a 150 milioni di gradi?

Si inizia con una forte scarica elettrica. La corrente passa attraverso un’enorme struttura metallica a forma di ciambella, il tokamak. Il calore generato dalla corrente porta gli atomi allo stato di plasma (il cosiddetto quarto stato della materia, una specie di gas caldissimo ed elettricamente carico composto da ioni positivi ed elettroni liberi ndr).
Il primo problema che si pone a questo punto è come mantenere stabile questa “zuppa” di nuclei ed elettroni e portarla a temperature ancora più alte, in modo da far avvenire la fusione. Per farlo, a ITER si utilizzerà il metodo del confinamento magnetico: vengono cioè creati dei fortissimi campi magnetici con enormi magneti superconduttori, che però hanno bisogno di lavorare a bassissime temperature. Quindi immagini la complessità di avere da un lato 150 milioni °C e dall’altro, a distanza di un metro, -270°C!
I campi magnetici mantengono il plasma staccato dalle pareti del tokamak, in modo da poter proseguire con il processo di riscaldamento, portandolo da temperature di centinaia di migliaia di gradi a oltre un centinaio di milioni di gradi. In pratica si tratta di un gigantesco forno a microonde. La sfida è ridurre al minimo le perdite di calore con un sistema di isolamento termico che è appunto il “confinamento”. Tutti i vari record che vengono riportati dai giornali non sono altro che aggiustamenti progressivi del confinamento del plasma, che permettono di minimizzare sempre più le perdite di energia.
La questione che si pone, arrivati a questo punto, è come sfruttare l’energia generata dalla fusione. Negli impianti per la produzione di energia elettrica si utilizza un refrigerante, in genere l’acqua: la si porta a ebollizione e il vapore generato farà girare le turbine. Ma se devo mantenere il plasma a 150 milioni di gradi non ci posso mettere in mezzo l'acqua. Bisogna dunque collocare gli scambiatori termici (che verranno “bombardati” dai flussi di neutroni energetici) sulla superficie esterna: e questo è un problema intrinseco della fusione, che richiede grandissime dimensioni.
Sono quindi tecnologie nuove, complesse, che vanno messe insieme in un apparato la cui geometria è tutt’altro che semplice. In confronto a un tokamak per la fusione, il cosiddetto reattore “ad acqua leggera”, che è lo strumento principale per sfruttare la reazione di fissione, è semplicissimo.

Abbiamo parlato di confinamento magnetico. Come funziona invece il confinamento inerziale, studiato in altri tipi di reattori per la fusione?

Sono metodi concettualmente molto diversi. Per il confinamento inerziale, invece di partire da un gas, si parte da un chicco di ghiaccio formato da deuterio e trizio. Lo si bombarda con dei laser che generano un’energia potentissima per un tempo molto breve. In questo modo il chicco di ghiaccio raggiunge una temperatura elevatissima e, invece di esplodere, implode, arrivando a uno stato di di altissima densità simile a quello che si può trovare sul Sole. Questo permette di raggiungere le condizioni per la fusione termonucleare per un tempo brevissimo, generando un’energia considerevole.
Il problema è che non è un processo continuativo. Mentre il confinamento magnetico si basa sull’idea di produrre energia dal plasma con continuità, con il metodo inerziale si hanno una serie di micro-esplosioni di energia, il che non è molto pratico. Mettiamo che la mia centrale debba produrre un gigawatt di potenza, questo vuol dire generare 1000 megajoule ogni secondo e se ogni esperimento mi dà solo qualche megajoule, avrò bisogno di centinaia di queste micro-esplosioni ogni secondo per raggiungere il mio obiettivo. Al momento non c’è modo di fare una cosa del genere e a mio avviso sarà molto difficile arrivarci.

Invece con il confinamento magnetico, diceva, si ha una continuità nella produzione...

Si parte con questa idea, ma non ci siamo ancora arrivati. Al momento ci proponiamo di fare degli esperimenti che durino almeno una decina di minuti, e non solo qualche secondo. Questo è infatti l’ordine di grandezza temporale perché il motore di una macchina, ad esempio, arrivi a girare a regime termico. Sarebbe un bel traguardo.
Poi però si tratterà di passare da 10 minuti a 10 anni, raggiungendo cioè il traguardo della reliability (affidabilità). Una cosa, infatti, è dimostrare il principio, la feasibility (fattibilità), altra cosa è la praticità a livello commerciale della tecnologia. E lo dico chiaramente, perché non voglio alimentare aspettative esagerate.

La sfida dei prossimi anni sarà quindi dimostrare l’affidabilità della tecnologia?

Al momento sappiamo che la fusione è fattibile. Abbiamo sufficienti informazioni per sapere che può funzionare per qualche secondo. Sappiamo anche che possiamo ottenere più energia di quella che infiliamo dentro. Con ITER vedremo se è possibile integrare le tecnologie in modo tale da accendere il motore e farlo andare per un quarto d’ora a piena potenza, come in Formula Uno, se vogliamo metterla così. La grande domanda che viene dopo è: una volta fatto il motore e vinta la gara, possiamo anche mandarci in giro la gente tutto il giorno?
La ricerca di ITER servirà appunto a capire quale potrà essere l’impatto della fusione nucleare per la società, dimostrandone l’affidabilità, ma anche l’accessibilità, il costo.

A proposito di aspettative, cosa ci può dire sulle tempistiche? Quando verranno ultimati i lavori di ITER?

A questa domanda non sono per il momento autorizzato a dare una risposta.
Sono tornato a ITER da un anno e mezzo in veste di direttore, dopo che ci avevo lavorato già negli anni ‘90 e fino al 2005, quando sono andato a occuparmi di due altri progetti (tra cui il JT-60SA, attualmente il più grande tokamak del mondo). Sotto la mia direzione abbiamo sviluppato una nuova baseline per i lavori, che presenterò al consiglio degli stakeholder, ma fino ad allora non posso dare indicazioni sulle tempistiche. Quello che posso dire è che siamo abbastanza avanti nel progetto, ma c’è ancora molto da fare e la conclusione non sarà prossima ventura.

Più in generale, quando potrebbe essere possibile produrre energia con la fusione? Qualcuno dice nel 2050...

La domanda corretta dovrebbe essere: quando sarà possibile produrre energia da fusione in modo che sia un asset per la società? È una domanda che mi faccio tutte le mattine quando mi sveglio ed è una domanda più che lecita. Ma il punto è che ci stiamo muovendo in un territorio inesplorato.
Nei prossimi 10 anni andremo sicuramente avanti nel dimostrare la fattibilità, ma poi convincere le utility a costruire reattori per produrre energia in modo continuativo sarà una strada ben più lunga. Certo non si possono escludere dei breakthrough inaspettati…
So che a molti piace fare previsioni dichiarando “fra 30 anni”, “fra 50 anni”, ma io preferisco essere più prudente e dire francamente che non lo so.

Parliamo di materie prime. Se il deuterio si trova in natura, il trizio invece viene ricavato dal litio...

Il trizio non è presente in natura perché è radioattivo, anche se ha un decadimento di soli 12 anni. Questo significa che va fabbricato. In genere è un by-product dei reattori convenzionali “ad acqua pesante”, e possiamo quindi utilizzarlo in questa fase di partenza. Ma in futuro, se vogliamo sviluppare la tecnologia della fusione, dovremo trovare altri reagenti (e c’è chi ci sta lavorando) oppure fabbricarci il trizio direttamente in loco, con una tecnologia che si chiama breeding (fertilizzazione). In ITER testeremo questo sistema in piccola misura, ma auspico che ci saranno altre attività di ricerca su questa sfida.

L’utilizzo del litio, che è già inserito nelle liste dei Critical Raw Materials, potrebbe andare in concorrenza con l’industria delle batterie?

Potrebbe esserci un po’ di concorrenza, ma per la fusione non servono grandi quantità di litio. Non credo che questo sarà un vero problema.

Le faccio un’ultima domanda: cosa risponde a chi dice che stiamo sprecando risorse in una ricerca che non darà frutti in tempi brevi?

Secondo me, in generale, tutti i fondi per la ricerca di fonti energetiche alternative sono soldi ben spesi. Poi andrebbe anche fatto un confronto con le cifre che si spendono in Europa per l’approvvigionamento di combustibili fossili (i sussidi alle fossili nella UE sono arrivati a 123 miliardi di euro nel 2022 ndr). Insomma, vanno fatte le dovute proporzioni.
E infine, dalla ricerca si hanno sempre grandi ritorni per la società, perché si sviluppano svariate tecnologie che poi possono essere utilizzate in vari ambiti, spesso diversi da quello di partenza. Pensiamo al CERN che fa ricerca sulla fisica elementare. Si potrebbe dire: a che serve? Ma in realtà tante tecnologie che oggi diamo per scontate sono state sviluppate grazie al CERN o a posti del genere.

Immagine di copertina: ITER, la fossa del tokamak (ph Luigi Avantaggiato)


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