La strada per la green economy è lastricata di geopolitica. Una risorsa come l’acciaio lo rende evidente.
Inaugurando una nuova era nella cooperazione transatlantica, a margine del G20 di Roma, Stati Uniti e Unione Europea hanno infatti annunciato la reciproca rimozione dei dazi e l’impegno per la decarbonizzazione della propria industria siderurgica. La riconversione a idrogeno verde degli altiforni a carbone è necessaria e già possibile. A fare da apripista, nel Vecchio Continente, ci sono Paesi come Svezia, Spagna, Austria e Germania. Tra questi, nonostante sia il secondo produttore di acciaio in Europa e l'undicesimo al mondo, manca invece l'Italia. In due report appena pubblicati, il think tank ECCO ci dice però che la decarbonizzazione del settore industriale italiano passa proprio dalle acciaierie dell’ex Ilva di Taranto, polo strategico a cui la nostra economia non deve rinunciare.
Le ragioni dell’accordo? Non solo clima
Il 31 ottobre scorso, durante il summit di Roma, Joe Biden e Ursula von der Leyen hanno voluto porre fine alla disputa commerciale scoppiata durante l'amministrazione Trump. L’accordo, che punta a eliminare le barriere d’entrata al mercato statunitense e rimuovere le contromisure UE, ha però una componente “green”. Prevedendo un monitoraggio nell’intensità del carbonio nella produzione dei metalli, i due leader vogliono compiere un primo passo verso un accordo globale sull’acciaio sostenibile. Per gli Stati Uniti, tuttavia, rinsaldare il partenariato trans-atlantico è fondamentale per vincere la concorrenza del mercato cinese. Mentre in conferenza stampa congiunta Biden dichiarava che “solo le democrazie possono trovare soluzioni valide alle sfide globali”, la stessa Casa Bianca rilasciava un comunicato chiaro nelle intenzioni: “Insieme, gli Stati Uniti e l'Unione Europea lavoreranno per frenare l'accesso ai loro mercati all’acciaio sporco e limitare l'accesso ai Paesi che immettono acciaio nelle nostre economie, contribuendo all'eccesso di offerta mondiale”. Secondo la World Steel Association, la Cina è infatti il principale produttore di acciaio a livello globale. Nel 2018 ha generato 928 Mt di acciaio, ma la maggior parte di questo acciaio è prodotto in altiforni alimentati con carbon coke. L’economia del gigante asiatico è ancora in via di sviluppo e ha una disponibilità limitata di rottame ferroso. La sua produzione di acciaio primario continuerà e, per vincere la sovracapacità , gli Stati Uniti devono fare spazio al loro acciaio sostenibile. Per riuscirci, hanno bisogno dell’Europa.
In Europa la decarbonizzazione dell’acciaio primario è già iniziata
Il rottame è già oggi una risorsa scarsa. Ipotizzando che la Cina decida di convertire anche solo il 15% della capacità installata a ciclo integrale ai forni ad arco elettrico, essa raggiungerebbe, da sola, una domanda di rottami di circa 220 milioni di tonnellate all'anno. Questo è un secondo fattore che porta le principali economie occidentali a considerare la produzione di acciaio primario come un processo necessario. “La nostra indagine nasce dalla necessità di capire se si possa mantenere solo l’acciaio secondario, quello da riciclo” spiega a Materia Rinnovabile Giulia Novati, co-autrice dei due rapporti che il think tank ECCO, con un focus sulla siderurgia, ha dedicato alla decarbonizzazione del settore industriale italiano. “Siamo giunti alla conclusione che mantenere una certa quota di acciaio primario è fondamentale. Ha caratteristiche differenti rispetto all’acciaio secondario ed è necessario che le tante aziende italiane che producono acciaio da riciclo abbiano una fornitura garantita di rottami”.
Volendo fare un esempio legato alla mobilità sostenibile, l’acciaio primario è irrinunciabile nello stampaggio delle carrozzerie, che richiede grandi deformazioni. L’Agenzia internazionale dell’energia nel rapporto Global electric vehicle outlook 2021 stima che nel 2030 le vendite di auto elettriche potrebbero arrivare, a livello mondiale, a quota 145 milioni. In Europa molti grandi produttori di acciaio stanno già investendo in progetti che mirano allo sviluppo della tecnologia DRI a idrogeno su scala commerciale e non mancano i primi legami proprio con l’automotive. In Svezia SSAB, LKAB e Vattenfall hanno avviato il progetto HYBRIT. La joint venture, che il 16 novembre scorso si è aggiudicata parte dei finanziamenti da 1,1 miliardi di euro del Fondo UE per l’Innovazione, ha consegnato i primi lotti di acciaio verde al gruppo Volvo Cars per la progettazione di prototipi di veicoli. Nel 2019 ArcelorMittal ha avviato un progetto da 65 milioni di euro per sperimentare la produzione di acciaio con idrogeno verde ad Amburgo, con l’obiettivo di produrre 100 kt all'anno di acciaio. Destino simile per l’impianto di ArcelorMittal di Sestao, in Spagna. Nello stabilimento Voaestalpine di Linz, in Austria, è stato invece costruito quello che attualmente è il più grande impianto pilota per la produzione di idrogeno per l'industria siderurgica.
“La decarbonizzazione del settore industriale italiano passa da Taranto”
Il report di ECCO dà un segnale chiaro. È da confutare l’idea che non si possano conciliare la difesa del clima e dei posti di lavoro. L’ex Ilva è l’unico stabilimento rimasto sul territorio nazionale a produrre acciaio primario a ciclo integrale. Nel 2020 ne ha prodotto 3,4 milioni di tonnellate, emettendo in atmosfera 8,3 Mt di CO2 e un lungo elenco di inquinanti derivanti dall’utilizzo del carbone e dei suoi derivati. Il think tank indipendente suggerisce per Taranto una strategia di lungo periodo che preveda, nella fase di transizione, la riconversione al gas naturale per arrivare alla decarbonizzazione con l'idrogeno verde, grazie alla possibilità di utilizzare la tecnologia DRI (Direct Reduced Iron) con entrambe le fonti di energia. “Per spezzare ed estrarre il ferro è possibile utilizzare sia l'idrogeno che il monossido di carbonio” conclude Novati “Nel passaggio da carbone a gas naturale le emissioni di anidride carbonica si dimezzano, ma con l’idrogeno verde si abbattono completamente. Quello che noi proponiamo è una filiera locale dell'idrogeno verde, che dal punto di vista occupazionale consentirebbe di compensare il ridotto fabbisogno del nuovo impianto. Nelle Linee Guida Preliminari della Strategia Nazionale Idrogeno, il governo italiano prevede l'installazione di circa 5 GW di capacità di elettrolisi entro il 2030, il doppio di quella necessaria per la riconversione dell’acciaieria di Taranto. A Taranto le ripercussioni sull'occupazione, solamente correlate alla produzione dell'idrogeno, potrebbero essere di circa 100 mila posti temporanei durante la fase di costruzione e 50 mila fissi”. ECCO stima che per la completa riconversione del sito, quindi per passare da carbone a gas naturale e poi a idrogeno, siano necessari da 10,7 a 11,3 miliardi di euro con i prezzi attuali delle tecnologie, che verosimilmente scenderanno a 7,9 – 8,7 miliardi di euro con i prezzi al 2030. C’è da chiedersi, piuttosto, quali costi il mancato intervento potrebbe avere sulla salute dei cittadini, sull’occupazione e sul prestigio della nostra economia.