Il colosso svedese della fast fashion H&M è finito sotto accusa per greenwashing.
A denunciarlo è stata la studentessa di marketing americana Chelsea Commodore, che lo scorso luglio ha portato il caso alla corte federale di New York. Oggetto della class action promossa dalla querelante sono i capi di abbigliamento della Conscious Collection, creati, secondo quanto dichiara il brand, “pensando al pianeta”, ma in realtà, stando a quello che dice Commodore (e non solo lei), tutt’altro che sostenibili.
Ora si attendono gli sviluppi della denuncia, ma in ogni caso - commentano gli esperti – si tratta di un avvertimento che tutta l’industria della moda farebbe bene a prendere sul serio.
Greenwashing e scelte consapevoli
“L'obiettivo del programma pubblicitario di H&M è commercializzare e vendere prodotti che capitalizzano sul segmento in crescita di consumatori attenti all'ambiente, ma H&M lo fa in modo fuorviante e ingannevole”. È questa, in sintesi, l’accusa che si legge sulla denuncia presentata da Chelsea Commodore lo scorso 22 luglio alla corte federale di New York.
Studentessa di marketing all’università SUNY New Paltz di New York, Commodore racconta di aver acquistato un capo d’abbigliamento del brand svedese pagandolo più dei “normali” abiti H&M in quanto etichettato come “Conscious”, cioè rispettoso dell’ambiente.
I capi della linea Conscious Choice – stando a quel che si legge sul sito di H&M – sarebbero infatti creati “con ancora più attenzione per l’ambiente” e ogni prodotto sarebbe “realizzato con almeno il 50% di materiali più sostenibili, come cotone biologico o poliestere riciclato, ma molti ne contengono decisamente di più”. Per sostanziare le sue affermazioni, il brand ha aderito all’Higg Index, un indice di sostenibilità per l’industria tessile e della moda sviluppato dalla Sustainable Apparel Coalition, di cui riporta le valutazioni sul suo sito. O meglio, riportava, visto che dopo la denuncia di Commodore, H&M ha ritenuto più prudente rimuovere alla svelta i punteggi Higg prima sbandierati.
Secondo la querela, le valutazioni dell’Higg Index sarebbero infatti state usate in modo ingannevole, come dimostra un’inchiesta uscita a fine giugno su Quartz. Il trucchetto, poi minimizzato come “errore tecnico”, consisteva in pratica nell’ignorare i segni “meno” dei punteggi dell’indice: ad esempio, se un abito ha un consumo d’acqua valutato -20% significa che consuma il 20% di acqua in più rispetto alla media, ma H&M riportava il contrario, cioè un consumo del 20% in meno.
Falsa economia circolare
Venendo alle affermazioni circa l’utilizzo di materiali sostenibili, Chelsea Commodore sottolinea come diversi prodotti della linea Conscoius Choice contengano fino al 100% di poliestere, materiale che non si biodegrada e disperde microfibre nell’ambiente. E anche se H&M dichiara di utilizzare poliestere riciclato dal PET delle bottiglie – osserva ancora Commodore - questo non significa “chiudere il cerchio”, visto che, mentre le bottiglie potrebbero essere riciclate svariate volte, la loro conversione in prodotti tessili (al contrario difficilmente riciclabili) non fa che accelerare il percorso verso la discarica.
Infine, il programma di take-back e riciclo degli abiti implementato dal brand è accusato di essere completamente ingannevole. E qui basta un po’ di buon senso per fare i conti. Attualmente solo l’1% dei materiali usati per l’abbigliamento viene riciclato per farne altri vestiti. H&M è la seconda azienda più grande del mondo per volumi di vendite nel settore moda (la prima è Zara) e, secondo una stima riportata da Quartz, produce 3 miliardi di capi all’anno. Sebbene – come giustamente riporta la denuncia di Commodore – esistano soluzioni per il riciclo del tessile, sono ancora ben lontane dall’essere scalabili per questi volumi di produzione.
Insomma, l’appello di H&M ai suoi clienti affinché riportino in negozio gli abiti smessi perché vengano riciclati, si traduce alla fine in un ulteriore incoraggiamento a comprarne di nuovi, in barba a quello che è il primo e più importante principio della vera economia circolare: allungare la vita utile dei prodotti per consumarne di meno.
Un campanello d’allarme per la Fast Fashion
La querela presentata contro H&M si inserisce in un filone recente di denunce e segnalazioni di casi di greenwashing: inequivocabile segnale di una pazienza (dei consumatori) in via di esaurimento, ma anche di una tendenza del marketing ormai fuori controllo.
Lo dice bene questo passaggio della denuncia di Chelsea Commodore: “Nonostante la sua posizione di gigante della fast fashion, H&M ha creato un ampio schema di marketing per fare greenwashing sui suoi prodotti, al fine di rappresentarli come rispettosi dell'ambiente quando non lo sono”. Insomma, sebbene non ci sia niente di più lontano dalla sostenibilità del concetto di fast fashion, i colossi della fast fashion ci provano comunque, in uno sforzo titanico di negare la realtà che sarebbe quasi mirabile se non fosse assolutamente deleterio.
Rimane ora da vedere come si concluderà l’iter legale intrapreso dalla studentessa di New York. La corte federale potrebbe decidere di accordarle la richiesta di “class action” e allora la faccenda diventerebbe grossa.
Già così, però, è una bella gatta da pelare per H&M e un campanello d’allarme per tutta l’industria della moda, che - come ammoniscono gli esperti legali intervistati dalla rivista di settore Apparel Insider - dovrebbe essere più cauta nello sbandierare la propria (presunta) sostenibilità come strategia di marketing.
Immagine: Sara Kurfess (Unsplash)