“Le montagne sono maestre mute che generano discepoli silenziosi”, diceva Johann Wolfgang von Goethe, spiegando in una frase la natura intima delle terre alte e dei suoi abitanti. Giganti fragili, terre lontane, dimenticate o troppo frequentate, selvagge o iper-antropizzate. Ma anche luoghi sacri, ierofanie del divino, punti di contatto con la sfera celeste, come il Golgota, il Sinai, il Meru, il Kailash, il Fuji, l’Uluru. Vette, sorgenti, picchi e valli piene di miti e leggende, di storie antiche, di paure primordiali, di comunità in fuga da persecuzioni o in cerca di tranquillità e sicurezza, o avversate dalle asperità, resilienti, isolate.
Le montagne, così come l’alto mare, sono luoghi di riflessione, dove le aspre difficoltà mettono alla prova l’umano, gli orizzonti oscuri o luminosi diventano spunti esistenziali, e l’anima può specchiarsi sulla splendida roccia, dove interrogarsi sul senso di esistere, dove perdersi nel costante cangiare delle nuvole, dove conoscere la natura e le sue interrelazioni complesse e circolari.
Oggi la mistica e la natura della montagna, con le sue lezioni impartite a discepole e discepoli, è messa in pericolo da un ipersfruttamento capitalista ed estrattivista – che si tratti di turismo o di industria mineraria poco cambia. Mentre la società dello spettacolo del selfie (chissà che ne direbbe Guy Debord oggi di TikTok e Instagram) banalizza e riduce ogni paesaggio a meme e video virale da consumare acriticamente, ignorando i perigli della montagna.
Incastrati tra la necessità di fermare l’abbandono delle terre alte e bloccare l’eccessivo avvicinamento a esse – con strade, impianti, infrastrutture nei luoghi del turismo di massa – oggi comprendere quali possono essere i modelli di sviluppo economico sostenibile delle montagne è un’impresa difficilissima. Innanzitutto, perché ogni area montana ha storie e processi differenti, quindi è impossibile comparare l’Himalaya con le Alpi, i Carpazi con le Ande. In secondo luogo, perché le trasformazioni climatiche e ambientali, insieme a quelle sociali ed economiche, sono tantissime, complesse e mai sufficientemente indagate.
Abbiamo collaborato per questo numero con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, per confrontarci sui temi, cercando di avere un focus sui sistemi agroalimentari e la pastorizia, ma anche per capire il legame con il mondo del turismo e lo sviluppo innovativo di nuove comunità, come ben racconta Rosalaura Romeo della FAO. Abbiamo affrontato il tema del clima con Izabella Koziell di ICIMOD, il Centro internazionale per lo sviluppo della regione himalayana, per capire i rischi regionali e globali delle montagne. Abbiamo raccontato i nuovi lavori e i nuovi spazi di coworking e coliving, segnale di una voglia di tornare in montagna con grande attenzione a ricreare equilibri antichi tra l’uomo e le terre alte. Abbiamo assistito agli scempi del turismo sulle Alpi e alla rinascita violenta dell’estrattivismo d’alta quota, nel pieno della nuova corsa alle materie prime.
Un numero composto di tante fotografie giornalistiche e geografiche, che restituiscono un ritratto complesso delle aree montuose, vivace e preoccupante allo stesso tempo. Con tantissime voci, spesso femminili, che raccontano di una voglia di ripensare il nostro rapporto con la montagna, con la sua economia, con la sua natura, con la sua sacralità. Tanti discepoli e discepole, che oggi non si possono più permettere di essere silenziosi.
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Immagine di copertina: Giovanni Segantini (1858-1899), Pomeriggio sulle Alpi, 1892