Secondo le Nazioni Unite, oggi oltre un miliardo e mezzo di persone vive in slum o insediamenti informali, ed entro il 2030 si potrebbe arrivare a 3 miliardi. Un discorso sulle città circolari del futuro non può perciò prescindere dallo sviluppo degli slum e della loro economia, che pur sfuggendo ai censimenti ufficiali muove enormi flussi di materia. E lo fa in un’ottica spontaneamente e necessariamente circolare.
Kibera, Dharavi, Neza-Chalco-Itza, Khayelitsha, Citè Soleil, Makoko, Rocinha, Agbogbloshie. Sono nomi che ai più non dicono nulla e che non si sa neanche bene come pronunciare. Ma basta “agganciarli” alle megalopoli di cui sono le appendici più povere e tentacolari per richiamarne subito alla mente qualche immagine, vista magari in un documentario o su un giornale. Slum, shanty town, favelas o, per usare il termine tecnicamente corretto, insediamenti informali.
Kibera, alla periferia di Nairobi in Kenya, conta all’incirca 2 milioni e mezzo di abitanti; Dharavi, alle porte di Mumbai in India, ne ha (almeno) un milione; Neza-Chalco-Itza, a nord di Città del Messico, pare arrivi addirittura a 4 milioni di persone; Khayelitsha, vicino all’aeroporto di Cape Town in Sud Africa, ne ospita 1,2 milioni; Cité Soleil, il più grande slum di Haiti, appena fuori dalla capitale Port-Au-Prince, ne conta 240mila; Makoko, attaccato a Lagos in Nigeria, più di 100mila; Rocinha, una delle favelas che circondano Rio de Janeiro, circa 70mila; Agbogbloshie, l’insediamento nato accanto alla più grande discarica di rifiuti elettronici del mondo, ad Accra in Ghana, probabilmente supera gli 80mila abitanti.
Secondo le Nazioni Unite, attualmente più di un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo vive in slum o abitazioni considerate “non adeguate”, ed entro il 2030 si potrebbe arrivare a 3 miliardi. I numeri ovviamente sono stime, i dati hanno ampie forbici di incertezza: siamo nel mondo dell’informale, che per definizione sfugge ai censimenti. Quello che è certo, però, è che si tratta di numeri enormi, che muovono economie enormi. Economie che, senza aspettare transizioni imposte dall’alto, sono spontaneamente e necessariamente circolari. Perché, a Dharavi come a Kibera, recuperare, riciclare, riusare, condividere e trasformare sono una questione di sopravvivenza.
Il flusso invisibile (e circolare) dell’economia informale
Mappare l’economia informale – e all’interno di essa quella più propriamente circolare – è impresa ardua. Si può cominciare da un macro-dato fornito dall’ILO, l’International Labour Organization: secondo un report del 2018, il 61% della forza lavoro nel mondo (all’incirca 2 miliardi di persone) è costituita da lavoratori informali. Per economia informale si intende “l'insieme diversificato di attività economiche, imprese, posti di lavoro e lavoratori che non sono regolamentati o protetti dallo stato”. La definizione è di WIEGO – Women in Informal Employment: Globalizaton and Organization, un’associazione internazionale che conduce diversi studi sulla materia.
WIEGO si occupa inoltre di sfatare vari miti su quella che viene anche chiamata – non senza un sottinteso di biasimo - “economia ombra”. Ad esempio che viaggi su binari totalmente separati dall’economia “ufficiale”. Non è così, ed è tanto più vero quando si parla del sottoinsieme delle attività di recupero e riciclo di materiali, che costituiscono un capitolo fondamentale per la sussistenza degli slum nati alle porte di molte metropoli. “Appare sempre più chiaro come i 20 milioni di lavoratori informali del riciclo, stando all’ultimo rapporto ILO Green Jobs, svolgano un ruolo cruciale nel fornire a volte l'unico servizio di raccolta rifiuti disponibile in alcune città”, ci spiega Sonia Dias, global waste specialist dell’associazione. I waste pickers dunque non sono reietti da salvare e andrebbe invece riconosciuto loro il ruolo chiave che svolgono nell’economia circolare delle aree urbane. Quello che può aiutare nell’integrazione è la capacità di auto-organizzarsi in associazioni spontanee o addirittura cooperative. Ad esempio, continua Dias, “a Pune, in India, la cooperativa SWaCH è assunta dalla città per fornire la raccolta dei rifiuti a domicilio, consentendo così il recupero di materiali riciclabili dai rifiuti domestici. A Bogotà, in Colombia, i raccoglitori di rifiuti si sono assicurati i diritti di accesso ai materiali di scarto attraverso la Corte costituzionale, che ha imposto che vengano pagati per i loro servizi. In Brasile, molti comuni assumono cooperative di waste pickers per la raccolta porta a porta di materiali riciclabili, e la National Solid Waste Policy li ha addirittura inseriti negli schemi EPR per promuovere la circolarità del Paese”.
Caso emblematico di simbiosi circolare tra mondo formale e informale è Dharavi. Il mega-slum ai margini di Mumbai fa girare un’economia da un miliardo di dollari (dato tratto da un documentario britannico del 2010, oggi verosimilmente più alto) basata in buona parte sul riciclo degli scarti della città. Batterie, vecchi computer e cellulari, lampadine, carta e cartone, cavi e fili elettrici, e soprattutto tanta plastica: le centinaia, anzi migliaia di piccole manifatture tra i vicoli di Dharavi gestiscono più dell’80% dei rifiuti di una delle più grandi megalopoli asiatiche. Il modello Dharavi è diventato un caso studio, tanto che molti ne parlano addirittura come di una “miniera d’oro della plastica riciclata”.
Va da sé che, per l’amministrazione di una grande città, sarebbe più facile gestire in modo efficiente i flussi di materiali e la raccolta dei rifiuti avendo una mappa per orientarsi e delle dimensioni su cui tararsi. Su questo lavora ad esempio il network ICLEI - Local Governments for Sustainability, che ha lanciato una piattaforma per lo sviluppo dell’economia circolare nelle aree urbane. In Africa, in particolare, si concentra su tre città: Nairobi, Accra e Cape Town. “Una delle principali sfide che la maggior parte delle città africane sta attualmente affrontando è l'accesso a dati che siano raccolti e condivisi in modo adeguato”, ci spiegano Jokudu Guya e Solophina Nekesa dell’Africa hub di ICLEI. Fra le iniziative dell’organizzazione c’è il Circle City Scan Tool, un progetto pilota che ha appunto lo scopo di creare un data base per implementare l’economia circolare di queste aree. “Questo strumento fornisce dati che sono scalati a livello metropolitano sulla base delle statistiche nazionali. Un sistema utile per ottenere una stima piuttosto attendibile per ciascuna città, nonostante la limitatezza dei dati disponibili”. Per portare alla luce il flusso invisibile dell’economia informale, ICLEI mette in campo anche strumenti meno canonici, come la fotografia. “Attraverso il concorso Hidden Flows – raccontano Guya e Nekesa – abbiamo potuto mostrare le storie, le persone e le reti che si nascondono dietro i flussi delle risorse urbane. Una raccolta di dati qualitativi che aiuta a dare significato ai numeri per informare il processo decisionale”.
Non solo riciclo: in quanti modi uno slum è circolare?
Di circolare, in uno slum, non c’è solo il recupero e riciclo dei materiali di scarto. Se l’economia circolare è un vasto concetto che si estende dalla riparazione al mercato dell’usato, dalla condivisione al prodotto come servizio, dall’architettura modulare all’uso multifunzionale degli spazi, allora un insediamento informale potrebbe quasi essere preso a paradigma di questo modello.
“Tutto è circolare in uno slum!”, dice con entusiasmo Alfredo Brillembourg, architetto venezuelano, fondatore con Hubert Klumpner dell’Urban Think Tank, che ha dedicato gran parte della sua vita professionale a migliorare le condizioni abitative di chi vive in contesti informali. L’architettura di questi luoghi, il modo di costruire le case, i materiali utilizzati e la maniera stessa di vivere e condividere gli spazi sono esempi di approcci circolari. “Cominciamo dalle case: sono modulari e crescono negli anni con l’aumentare dei membri della famiglia - spiega Brillembourg – Si parte da 5 metri quadrati per una persona, si passa poi a 15 o 20 per far spazio ai bambini. Si aggiunge un piano, poi un secondo, un terzo e si affitta il pianoterra per attività commerciali, mentre sul tetto si mette un orto e si raccoglie l’acqua piovana”. Si costruisce con materiali di recupero, ovviamente, e ci si aiuta a vicenda, mettendo insieme pezzo per pezzo persino le strade e i rudimentali scoli fognari. “È quello che chiamiamo Pirate Urbanism e che contribuisce a creare il forte senso di comunità negli insediamenti informali. Bisogna riuscire a guardare oltre l’ammasso di case cadenti che la maggior parte delle persone ci vede: uno slum è prima di tutto un fatto sociale”.
Il senso di comunità, la collaborazione, è proprio il principio morale su cui dovrebbe reggersi una vera economia circolare, fatta di condivisione di risorse, servizi e spazio. E su questo la città formale avrebbe molto da imparare da quella informale. “In uno slum lo spazio – sia quello domestico che quello pubblico, è sempre multifunzionale – continua Brillembourg – La piazza ad esempio al mattino presto è un’aia per dar da mangiare a mucche e polli, ma viene sgomberata in tempo per l’orario di apertura dei negozi, per poi trasformarsi la sera in luogo di ritrovo e di festa”. Anche le forme spontanee di sharing economy, se pure dettate dalla necessità, poggiano su una rete sociale incredibilmente coesa: dai servizi igienici ai luoghi per fare il bucato, dai cavi per l’elettricità alle cucine, tutto è condiviso e tutto avviene in spazi comuni, cosa che sarebbe quantomeno problematica senza rispetto reciproco, fiducia e tolleranza.
Altro elemento importante nel delineare un modello circolare a 360° è la prossimità. Fattore questo su cui gli urbanisti sono al lavoro da anni per ridisegnare la geografia delle metropoli, ma che in una città informale e costruita “dal basso” è ancora una volta espressione spontanea di una necessità. Per gli abitanti di uno slum la casa è spesso anche il luogo di lavoro, e la faccenda non ha nulla di “smart”: semplicemente non c’è altro posto. Questo tuttavia comporta un accorciamento delle distanze per soddisfare qualsiasi altra necessità, come comprare il cibo o andare a scuola. Le città spontanee, insomma, pure se contano centinaia di migliaia di abitanti, sono organizzate in nuclei, in micro-cities che fanno risparmiare tempo ed energia per gli spostamenti quotidiani. “È il modello che dovremmo assorbire anche nelle nostre metropoli – osserva Brillembourg – portando il villaggio dentro la città”.
Guardando al futuro: retrofitting vs. redevelopment
In una visione del futuro urbano del mondo non si può non includere lo sviluppo degli slum. Secondo Brillembourg, gli insediamenti informali non sono altro che lo stato embrionale delle città. “Quello che comunemente si definisce come slum – spiega - è un insediamento con abitazioni precarie, spesso costruite dagli stessi abitanti e senza titoli di proprietà con valore legale, senza infrastrutture e senza servizi igienici in casa”. Da questo grado zero, tuttavia, “si parte per migliorare e integrare con il resto del tessuto urbano, così come è avvenuto ad esempio per i centri storici fatiscenti di tante città europee. Se uno slum come Dharavi o Khayelitsha fosse dotato di infrastrutture sicure, di una rete idrica e di servizi igienici appropriati, sarebbe il posto più cool dove vivere”.
In un’ottica autenticamente circolare, Brillembourg, così come la gran parte delle organizzazioni che si occupano di insediamenti informali, rigetta allora il concetto di redevelopment in favore di quello di retrofitting. Nel primo caso, come l’amministrazione di Mumbai ha cercato di fare a più riprese con Dharavi, si tratta brutalmente di radere al suolo porzioni di slum e sistemarne gli abitanti in palazzoni di venti piani che diventeranno fatiscenti nel giro di pochi anni, con conseguente spreco di risorse e distruzione del tessuto sociale che è la vera ricchezza di questi luoghi. Il retrofit è invece la via da seguire per preservare tutto il buono e migliorare il resto. “I decisori politici – spiega Sonia Dias di WIEGO – devono capire che il solo modo per migliorare i mezzi di sussistenza degli abitanti di un insediamento informale è migliorarne i servizi e le infrastrutture, assicurando innanzitutto i diritti di proprietà a chi ci vive, poi fornendo servizi di base come la rete idrica ed elettrica, i marciapiedi e servizi comunitari come lavanderie e asili nido”.
Brillembourg guarda ancora più avanti, contando sulla capacità di leapfrog, di saltare i passaggi, tipica dei paesi in via di sviluppo (ad esempio per la telefonia, si è arrivati direttamente ai cellulari senza passare dalle reti fisse). “Possiamo creare dei veri e propri villaggi urbani off the grid, totalmente indipendenti e sostenibili: con agricoltura urbana, pannelli solari, sistemi di trattamento delle acque di scarico che le riciclino per irrigare le piante. Tutto disegnato come un sistema autonomo, come se fossimo sulla Luna”. E infine torna a immaginare la città del futuro, “una vibrante fusione di formale e informale. La nuova Utopia – conclude - sarà la combinazione di Londra e Mumbai”.
Nell'immagine: lo slum di Jealousie sulla collina di Port au Prince (ph Giorgia Marino)
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