Tim Lang preferisce pensare a lungo termine. Non si può analizzare il sistema cibo senza usare un approccio complesso e olistico, e nessuno ci riesce meglio del professore di politiche alimentari della City University di Londra, conosciuto a livello internazionale per l’ampiezza della sua visione. Il suo ultimo libro, “Feeding Britain”, si concentra sul suo paese di origine, ma la sua analisi si estende a tutto il mondo. Secondo Lang, alcuni paesi come il Regno Unito si trovano, de facto, di fronte a una sfida alimentare di proporzioni analoghe a quelle affrontate in tempi di guerra. La geopolitica e la cultura consumistica sono i due fattori principali che stanno rallentando la transizione del sistema alimentare verso modelli circolari e a prova di cambiamenti climatici. Ci siamo seduti per un’intervista via Skype per discutere di cosa succederà in futuro.
Professor Lang, quali sono le sfide principali che deve affrontare oggi il sistema alimentare globale?
“Le tendenze sono le stesse di dieci anni fa. I cambiamenti climatici diventano un problema sempre più grave, la perdita di biodiversità ancora di più. Ma in più c’è una nuova dinamica, molto rilevante: le incertezze geopolitiche. Parlo dalla Brexitland, un tempo conosciuta come Gran Bretagna, una nazione che ha scelto di destabilizzare l’Unione Europea, e che è in costante declino. Ci sono tensioni tra gli Stati Uniti, la Cina, l’India, la Russia e l’Europa. Questi problemi politici e le loro ricadute macroeconomiche influenzano quello che succede nel sistema alimentare allo stesso modo in cui modificano l’industria dell’auto, del packaging o del turismo. Quindi, la geopolitica sta diventando un fattore molto importante. Uscendo dall’Europa, il mio paese, la Gran Bretagna, deve ripensare la sua sicurezza alimentare. E infine: è urgente contrastare la cultura del consumismo. La diminuzione dei prezzi dei beni, perseguita con lo scopo di renderli più accessibili, si è trasformata in una crisi, e l’abbiamo creata noi. È assolutamente chiaro che il sistema alimentare in Europa mangia troppo, consuma troppo, spreca sempre di più. Persino la dieta mediterranea è peggiorata, è stata introdotta una valanga (tra l’altro in continua crescita) di cibi ultra-lavorati, ognuno dei quali si riverbera sull’utilizzo del suolo, sul mondo del lavoro e così via. L’ho chiamata l’economia del pasto perenne”.
Lei ha detto più volte che c’è un grande problema di “difesa alimentare”…
“Quando compriamo arance a basso costo dall’Africa occidentale, affermando che non abbiamo bisogno della Spagna. O quando ci affidiamo alle nostre relazioni con gli Stati Uniti e crediamo di poter avere arance dalla Florida all’infinito. Fondamentalmente, ci esponiamo a problemi di sicurezza alimentare. La Brexit ci ha mostrato la nostra fragilità. La Gran Bretagna era una nazione industriale nel XVIII secolo, in quello successivo è diventata la potenza imperialista dominante, e ha basato il proprio sistema di approvvigionamento del cibo su questa condizione.”
Il Regno Unito era più autosufficiente all’inizio del XX secolo di quanto lo sia ora.
“Vero, ma era così perché avevamo un impero e lo saccheggiavamo per riempire le nostre tavole e le nostre pance. Poi tutto ha cominciato a crollare. Nel 1939 gli autori del libro intitolato “Our Food Problem and Its Relation to Our National Defences”, (Le Gros Clark F., R. M. Titmuss, ndA) denunciavano la nostra esposizione all’insicurezza alimentare. Il Regno Unito rispose: ‘Non dobbiamo essere a rischio’. Nel 1939 la Gran Bretagna produceva circa un terzo del proprio fabbisogno alimentare. Nel 1945, nell’arco di sei anni, questa quantità era raddoppiata.”
Questo potrebbe essere vero nel Regno Unito. Possiamo applicarlo anche all’Europa?
“La geopolitica è diventata molto pericolosa, con un panorama globale in rapido cambiamento. L’Unione Europea deve aggiornare il suo pensiero riguardo alla sicurezza alimentare e alla produzione di cibo. Non si tratta di nazionalismo o di protezionismo, ma di resilienza: dobbiamo essere in grado di tornare allo stato di partenza nel caso in cui si verifichi un evento traumatico. Questa è la difesa alimentare”.
Come possiamo cambiare tutto questo nel prossimo decennio?
“Abbiamo bisogno di qualcosa come una legge sulla resilienza alimentare e sulla sostenibilità, completa di obiettivi vincolanti. Le linee guida sulla nutrizione dovrebbero essere la base per i contratti sull’approvvigionamento di cibo, sia pubblici sia privati. Suggerisco anche di effettuare una verifica della produzione alimentare in Gran Bretagna e di raddoppiare il budget per la sanità pubblica da 2,5 miliardi di sterline, su 130 miliardi di budget per la sanità, a 5 miliardi. Dovremmo creare nuovi organi di vigilanza, come una commissione reale che definisca un nuovo insieme di principi, basati su diversi criteri, per il sistema alimentare del Regno Unito, un comitato per la resilienza alimentare e la sostenibilità e un network di collegi urbani e rurali alimentari e agricoli.”
Cosa è cambiato – in meglio – nell’ultimo decennio?
“Il cambiamento è molto delicato dal punto di vista politico. Nessun rappresentante eletto vuole dire ai consumatori ‘dovete cambiare le vostre abitudini alimentari’. Dicono: dobbiamo fare qualcosa per il problema dell’obesità, ma poi scaricano la responsabilità sui consumatori. Dovrebbero invece puntare alla riprogettazione dell’economia alimentare, dalle infrastrutture (ci serve un sistema di trasporti che contribuisca a migliorare la salute pubblica) ai risvolti sulla salute (l’impatto dello zucchero). Però la risposta è lenta, persino nell’Unione Europea. Ci sono voluti 20 anni per avere il sistema di etichettatura QUID, la dichiarazione quantitativa degli ingredienti. Eppure sappiamo che l’etichettatura rappresenta il metodo di intervento più debole e più inutile. Incoraggia le riformulazioni, ma non contrasta la cultura del consumismo e non affronta realmente il problema della mercificazione dell’economia alimentare. Ciò che crea il cambiamento sono le politiche.”
Ma qualcosa è stato fatto…
“Bisogna dire che l’Unione Europea sta dando inizio a un piccolo processo di cambiamento: il Food 2030 Program (le politiche dell’Ue in tema di ricerca e innovazione relative agli Obiettivi di sviluppo sostenibile e all’Accordo di Parigi, nda) e il cambiamento in senso ambientalista delle Pac, le Politiche agricole comuni, sono una realtà, ma come sempre per l’Europa tutto si sta verificando molto lentamente.”
Il tempo sta per scadere. I cambiamenti climatici stanno peggiorando e stiamo perdendo biodiversità a una velocità allarmante.
“Abbiamo una ventina d’anni per attuare i grandi cambiamenti che sono necessari, e non riusciremo a realizzarli se non diamo ai consumatori un ruolo centrale. Il Covid-19 sarebbe potuto essere un’opportunità in questo senso, ma ci stiamo concentrando sul ritorno alla normalità pre-pandemia invece che sulla trasformazione dell’economia.”
Il vegetarianismo e la sua frangia vegana si stanno diffondendo. È un segnale positivo da parte dei consumatori?
“Sono movimenti ancora molto esigui, che non hanno un’influenza sufficiente. Oggi mangiamo carne tutti i giorni, quando invece dovremmo farlo solo nelle occasioni di festa. La carne non è necessaria, ma ha comunque un suo ruolo nel regime alimentare. Il consumo globale di carne e di prodotti caseari sono in aumento, e il cambiamento in direzione del vegetarianismo compensa a malapena questa crescita. L’impatto complessivo del vegetarianismo è piccolo in confronto al nostro bisogno di cambiare la cultura e l’economia alimentare nei prossimi 20 anni, e di farlo in fretta se vogliamo evitare un aumento delle temperature globali di 4 °C.”
C’è anche un veganismo negativo, incentrato su cibi a base di soia ultra-lavorati o super alimenti non sostenibili come l’avocado. Cosa ne pensa?
“Sono comunque cibi spazzatura, solo che sono vegetariani invece che a base di carne o latticini. I giovani stanno diventando più vegetariani o anche vegani, il che da un certo punto di vista è positivo, ma non se si tratta della soia che sta distruggendo l’Amazzonia o il Cerrado brasiliano. In generale il cibo ultra lavorato è economico, molto diffuso, con grandi budget per la pubblicità. Pensi a questo: il budget per la pubblicità della Coca-Cola, la più grande compagnia produttrice di bevande al mondo, è il doppio del budget dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Nel Regno Unito, mentre Boris Johnson ha investito 10 milioni di sterline per un programma di contrasto dell’obesità, i rivenditori al dettaglio hanno speso tra 1 e 1,5 miliardi di sterline in pubblicità.”
La Gran Bretagna è un cattivo esempio in fatto di politiche alimentari.
“Il suo sistema alimentare distopico emerge con chiarezza nel mio ultimo libro, nel quale mi sono concentrato sull’economia in declino di Brexitland. Ho condotto un’analisi basata su più criteri, utilizzando sei parametri: salute, ambiente, economia, valori sociali, qualità del cibo e governance. Quello che ne emerge è che la situazione è peggiorata. La Gran Bretagna sta fondamentalmente vivendo una cultura alimentare post-imperialista. Non vuole coltivare il proprio cibo. Abbiamo una catena di rifornimento fragile e inadeguata, che potrebbe collassare facilmente e produce solo circa il 50% del cibo che mangiamo, lasciandoci in balia del mercato internazionale, mentre usiamo metodi che danneggiano la salute degli esseri umani e dell’ambiente. La diseguaglianza è ai livelli massimi, c’è una differenza sconvolgente tra ricchi e poveri in termini di reddito e quindi di accesso al cibo. Nello stesso tempo il sistema sanitario spende miliardi per curare patologie causate dal cibo a basso costo. Quello che costa poco crea costi enormi e insostenibili da qualche altra parte. Lasciare l’Unione Europea, dalla quale si acquista il 40% del cibo che si consuma, senza un piano su come andare avanti. È incredibile.”
Grandi città hanno ideato importanti politiche alimentari, e altrettanto ha fatto Londra.
“Londra può fare molto per contrastare il potere dell’industria alimentare? No, non ne ha il potere legale. Londra resta però molto attiva dal punto di vista alimentare. La London Food Board ha svolto un lavoro assai interessante. Ne sono molto orgoglioso. Ma abbiamo trasformato l’economia alimentare di Londra? Io direi di no. Abbiamo contribuito a creare un movimento che chiede città sostenibili? Sì, lo abbiamo fatto. In 50 città è presente un movimento attivo e vivace che si occupa dei temi alimentari, l’ex Sustainable Food Cities Network, che ora si chiama Sustainable Food Places Network e fa parte del movimento fondato per l’Expo di Milano del 2015, con il Milan Food Policy Plan.”
Pensa che le politiche alimentari andrebbero applicate a livello nazionale?
“Nel mio libro sostengo che viviamo in un mondo a più livelli. L’azione deve riguardare molteplici fattori, settori e livelli.”
Nel suo libro insiste sull’importanza della produzione locale.
“Ci siamo concentrati sulla distribuzione di massa di aziende come Tesco. La priorità data ai prezzi ha indebolito l’agricoltura della Gran Bretagna, così che i produttori primari ricevono la fetta più piccola della torta. A loro arriva solo circa il 5% del valore del cibo che acquistiamo. Abbiamo bisogno di un mercato in cui i produttori locali ricevano un compenso equo. Nel nostro paese il livello di autosufficienza, che ora è al 50%, dovrebbe essere più vicino all’80% se vuole contribuire globalmente. Non possiamo pensare che arriverà qualcun altro a darci il cibo che ci serve per mangiare. In tutta Europa le piccole aziende agricole e le piccole imprese sono in enormi difficoltà. Sono surclassate in fatto di abilità gestionale e competitività da aziende gigantesche. C’è una tensione fondamentale tra l’economia alimentare su piccola e quella su grande scala, e non penso che l’Europa se ne stia occupando. Inoltre: ci servono delle politiche. Invece la tendenza è tuttora quella di internazionalizzare, trasportando il cibo in giro per il mondo. Le autostrade sono piene di generi alimentari. Un chilometro su cinque percorso dai camion è legato al trasporto di cibo, e questo contribuisce a creare un’infrastruttura ad alte emissioni di carbonio davvero priva di senso.”
L’utilizzo degli scarti agricoli per la produzione di biomateriali o biogas può rappresentare un’opportunità per gli agricoltori?
“Nel Regno Unito si parla molto di questo tema, e in una certa misura si agisce anche, ma non abbastanza. Ero nella commissione governativa sul cibo e le risorse naturali per la Sustainable Development Commission, che fu abolita dal governo conservatore nel 2011. Era un tentativo di investire davvero sulla riduzione degli sprechi alimentari – il programma si chiamava Waste Resources Action Program, Wrap – ma l’unica iniziativa che avrebbe potuto esercitare una leva politica sull’industria alimentare fu bloccata. Senza una governance abbiamo sprecato nove anni. Vediamo alcuni buoni esempi, con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Ma ci basiamo ancora troppo sulla plastica, e riflettiamo poco sul tema degli scarti agricoli. Forse le bottiglie di plastica del latte sono un po’ meno spesse, ma in Gran Bretagna non esiste uno schema armonizzato a livello nazionale. Ognuno ha sistemi di riciclo differenti. Ci serve un cambiamento sistemico nell’approccio al cibo, e ci serve urgentemente. Non possiamo sprecare altro tempo.”
Per approfondire, scarica e leggi il numero 33 di Materia Rinnovabile dedicato al sistema cibo.
Immagine in apertura di Giada Connestari