La produzione industriale di carne da allevamenti intensivi è sempre più insostenibile e sotto attacco per le condizioni in cui gli animali sono allevati e macellati, per la quantità di acqua, energia, mangimi e altre risorse richieste per la produzione di proteine, per la densità dei nutrienti in costante calo soprattutto se confrontata con le proprietà nutritive dei cibi mangiati dai nostri nonni. Eppure, secondo l’ultimo report di RethinkX, qualcosa potrebbe cambiare a breve.
La fine delle proteine come le conosciamo
Il sistema industriale alimentare, grazie al quale oggi godiamo di scaffali nei supermercati stracolmi di opportunità di scelta, reali o presunte tali, ha portato negli scorsi decenni grandi fasce di popolazione fuori dalla fame, offrendo livelli di salute e longevità diffusa mai raggiunti prima. Tale sistema ora è sotto pressione sia per gli effetti sulla salute provocati dalle sostanze chimiche e dai pesticidi usati, sia per il cambiamento climatico e le emissioni di gas serra che il sistema produce, sia per i margini di profitto di molte aziende ridotti al minimo.
Tuttavia, nel mondo della produzione di cibo in generale, e in quello della produzione di proteine in particolare, è in corso una serie di cambiamenti che ha alla base la tecnologia e potrebbe modificare nel giro di pochi decenni il cibo così come lo conosciamo.
È questo l’argomento al centro del recente report “Rethinking Food & Agriculture 2020-2030: The second domestication of plants and animals, the disruption of the cow and the collapse of the industrial livestock industry”. Pubblicato dal think-tank americano RethinkX, il report mostra come l’attuale sistema agroalimentare sarà stravolto dai rapidi avanzamenti fatti nell’ambito della biologia di precisione. Il nuovo modello di produzione porterà profondi cambiamenti non solo per il sistema agricolo ma anche per l’economia in generale, per la società e l’ambiente.
Il report riguarda la fine delle proteine così come oggi le conosciamo, guidata da motivazioni economiche. L’attuale produzione di cibo è ambientalmente, socialmente ed economicamente insostenibile, per cui anche una tecnologia non del tutto sviluppata riuscirà a produrre margini maggiori rispetto al sistema attuale” afferma uno degli autori, Catherine Tubb. “La tecnologia e la fermentazione di precisione produrranno proteine che già nel 2025 saranno abbastanza buone ed economiche per competere con le proteine animali esistenti, fino a diventare nel 2030 cinque volte più economiche.”
Disegnare il cibo con la fermentazione di precisione
La fermentazione di precisione, combinazione di biologia e processi di fermentazione, parte da un microrganismo che viene nutrito, principalmente, di zuccheri, scarti alimentari e agricoli. Dunque viene “programmato” per trasformarsi in qualsiasi tipo di molecola organica più complessa, e nel caso in oggetto, nelle proteine desiderate. Il costo di una singola molecola “nutrita” in laboratorio con la fermentazione di precisione è sceso da 1.000.000 $/kg nel 2000 ai 100 $/kg di oggi e si prospetta scenderà sotto i 10 $/kg nel 2025. Un abbassamento radicale dei costi che ha portato i ricercatori a ipotizzare che la fermentazione di precisione sia vicina a competere, per costo, velocità e volume, con gli allevamenti industriali come modello di produzione di cibo.
Mentre oggi, nel caso di un bovino si nutre l’intero animale per due o tre anni per poi utilizzarne i diversi tagli, con la fermentazione di precisione si parte dal basso, dal disegno delle singole molecole per creare in poche settimane prodotti via via più strutturati e complessi, come formaggio o yogurt, e con il potenziale di creare sempre nuovi prodotti con caratteristiche e qualità diverse.
Il food-as-software, introdotto dal report, sarebbe così il futuro: il cibo moderno e le molecole sono disegnate e sviluppate alla stregua delle app.
Chiunque, ovunque, avrebbe accesso agli strumenti per disegnare cibo: gli strumenti, disponibili on-demand, open source o pay-per-use, su database molecolari e nutrizionali permettono di disegnare nuovi cibi, ma anche prodotti cosmetici, medicine e materiali che possono, poi, essere scaricati e realizzati nelle fattorie di fermentazione, pensate come gli attuali birrifici artigianali, costruite nelle o a ridosso delle città e dei centri abitati e sparse in tutto il mondo.
Stando così le cose negli Stati Uniti entro il 2030 la domanda di prodotti bovini e il numero di animali presenti scenderebbero rispettivamente del 70 e del 50%, mentre le nuove forme di produzione delle proteine (in laboratorio e o tramite biologia di precisione) guadagnerebbero il 75% del mercato oggi basato sulle proteine bovine. Il che produrrebbe conseguenze anche negli altri settori zootecnici e ripercussioni a catena su tutte le industrie a esso collegate (fertilizzanti, macchinari, servizi veterinari e altro). Le emissioni gas serra collegate agli allevamenti bovini, dal canto loro, scenderebbero del 45% nei prossimi dieci anni. Entro il 2030 andrebbero persi metà degli 1,2 milioni di posti di lavoro impiegati nella produzione statunitense di carni bovine e da latte e nelle produzioni a essa connesse. Parallelamente, però, l’industria emergente della fermentazione di precisione creerebbe 700.000 posti di lavoro nei prossimi 10 anni che salirebbero fino a un milione entro il 2035.
Latte, pelle, collagene
Non è solo la bistecca a rischio distruption, ma anche prodotti come il latte, la pelle, il collagene. Il latte è composto per l’88% da acqua: capire e ricreare il 12% di ciò che rende il latte la bevanda che amiamo, e in particolare il 3,3% che sono le sue proteine, permetterebbe di replicarlo senza passare dalle stalle.
La creazione di collagene umano, invece, è già in corso. Nel marzo 2019, Geltor ha annunciato la produzione di HumaColl21, il primo collagene animal free prodotto per la cosmetica, selezionato per la sua biocompatibilità con le cellule della pelle umana.
Anche il settore dei materiali potrebbe avvantaggiarsi di questa tecnologia, mandando in pensione la pelle bovina come materiale usato nel settore della moda e arredamento. Un esempio è la produzione di seta di ragno da parte dell’azienda giapponese Spiber che utilizza la fermentazione di precisione per programmare un microbo a produrre seta sintetica. Il Moon Parka è stato prodotto e disegnato da Spiber in partnership con l’azienda di outdoor, The North Face.
Rivoluzione agricola e commerciale
Una lenta disgregazione che, settore per settore (il report parla principalmente del settore bovino, perché considerato il più inefficiente, ma considerazioni simili riguardano anche l’industria suina, ovina e ittica) potrebbe portare gli allevamenti alla bancarotta. Uno degli effetti sarebbe la perdita di valore del 40-80% dei terreni agricoli, il 60% dei quali nel 2035 potrebbe non essere più usato per produrre cibo, ma riportato allo stato naturale attraverso attività di rewilding o destinato ad attività di compensazione della CO2. Se ciò si realizzasse, soltanto negli Stati Uniti 500 milioni di acri di terreno (200 milioni di ettari) potrebbero avere una nuova destinazione d’uso.
Quali impatti politico-economici si avrebbero se uno scenario del genere si verificasse anche solo parzialmente? Con una produzione decentralizzata e capillarmente diffusa cambierebbero le relazioni commerciali tra Paesi. La produzione alimentare sarebbe molto meno vincolata da condizioni geografiche e climatiche. Esportatori di prodotti di origine animale – come gli Usa, il Brasile e l’Unione europea – perderebbero la leva geopolitica sui Paesi oggi dipendenti dalle loro importazioni. Non essendo necessarie grandi dotazioni di seminativi e particolari risorse naturali per produrre, qualsiasi Paese potrebbe avvantaggiarsene, creando proteine a livello nazionale a un costo inferiore a quello attuale. Paesi in via di sviluppo e con popolazione crescente avrebbero accesso ad alimenti ricchi di proteine ed economici.
ll passaggio della produzione dai terreni agricoli ai serbatoi di fermentazione in acciaio inossidabile – che facilitano vari tipi di reazioni biochimiche come l’aerazione e la regolazione della temperatura in un ambiente a sistema chiuso – si tradurrebbe in ripercussioni sulla logistica, affiancate dalla diminuzione di scarti di produzione, dalla riduzione dei trasporti, del consumo di acqua e dell’emissione di gas serra.
Oltre la carne
Che tutto ciò si realizzi in futuro più o meno vicino, i cambiamenti nella produzione di proteine, dovuti alla tecnologia, sono in corso già da alcuni anni. Ed è impossibile ignorarli. Basti pensare che nel 2019 Beyond Meat, l’azienda produttrice del Beyond Burger (hamburger vegano prodotto con ingredienti vegetali, ndr), è stata quotata in Borsa ed è arrivata nei primi mesi di quotazione ad essere valutata 10 miliardi di dollari. Non è l’unica. Se Beyond Meat sfrutta i software per decodificare il gusto e i profili nutrizionali degli alimenti ricchi di proteine e progettare nuove e più economiche opzioni, esistono altre aziende che stanno sfruttando, per creare proteine, la produzione microbica o di precisione come Impossible Foods, Perfect Day, Novonutrients e lo sviluppo di cellule staminali nel tessuto animali come la Memphis Meats. Wild Type, BlueNalu e Finless Foods stanno lavorando, invece, a prodotti ittici coltivati in laboratorio. Clara Foods crea uova e albumi d’uovo basati sulla fermentazione di precisione sotto forma di prodotti da forno e ingredienti per bevande e integratori.
Le implicazioni sociali della carne “coltivata”
Le proteine in laboratorio aprono ampie discussioni. Prima di tutto occorre decidere se si possano considerare cibo al pari di quello che oggi mangiamo. Esistono, poi, i dubbi sui nutrienti presenti nei cibi così prodotti, sulle ripercussioni che questi ultimi potrebbero avere sugli ormoni e sulla salute umana. Fermo restando che in alcuni casi sono gli stessi dubbi che il modello di agricoltura industriale e intensiva pone rispetto all’idea auspicabile di cibo “buono, pulito e giusto”.
Bisogna prestare attenzione alle ripercussioni sulla nostra quotidianità. Se è vero che ovunque ci sia un edificio con accesso all’acqua e all’energia solare sarà possibile creare proteine, quali saranno le implicazioni per l’approvvigionamento delle città?
Bisognerà gestire la proprietà di questo nuovo mercato. Come la stessa Tubb ammette: “È cruciale capire come rendere questo modello trasparente e avere una produzione distribuita per evitare di avere lo stesso monopolio attuale”. Come si potrà evitare che la proprietà di proteine si concentri, com’è oggi, nelle mani di quattro grandi aziende? Sarà il caso di evitare il deposito di brevetti o di creare leggi anti-trust? Fondamentale sarà il ruolo dei governi.
Bisogna anche pensare alle implicazioni sociali e alle potenziali disuguaglianze che si creeranno tra chi mangerà proteine create in laboratorio e chi, invece, sarà ricco abbastanza da permettersi una costosa e nutriente bistecca prodotta con i metodi dell’agricoltura rigenerativa.
Che la carne "coltivata" sia sulle nostre tavole già domani o meno, non si può aspettare passivamente che la tecnologia ci salvi, specialmente in un momento in cui tanti dei problemi sanitari, sociali e ambientali affondano le proprie radici in un sistema alimentare ormai insostenibile. Eppure, di proteine coltivate s’ipotizzava già quasi un secolo fa se nel 1931 Winston Churchill affermò su The Strand Magazine: “We shall escape the absurdity of growing a whole chicken in order to eat the breast or wing, by growing these parts separately under a suitable medium” (“Sfuggiremo all’assurdità di allevare un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l’ala, facendo crescere queste parti separatamente in un ambiente adatto”).