Il 9 febbraio 2023 Greenpeace ha annunciato che porterà la Commissione UE davanti alla Corte di Giustizia Europea. L’accusa è aver incluso il gas fossile e l’energia nucleare nella lista degli investimenti sostenibili della cosiddetta Tassonomia verde. Nel frattempo, lo stesso giorno, gli avvocati ambientali della Ong ClientEarth promuovevano in Regno Unito un’azione legale contro il Consiglio di amministrazione del colosso petrolifero Shell, “per non aver gestito i rischi materiali e prevedibili posti alla società dal climate change”.
Due eventi, in una coincidenza che però non deve stupire. Lo avevano detto per la prima volta anche gli esperti del World Economic Forum a Davos: il contenzioso climatico è un fenomeno destinato a crescere.
Greenpeace contro la Commissione UE per rimuovere l’etichetta verde da gas e nucleare
Secondo Greenpeace, l’etichetta verde a gas e nucleare violerebbe il Regolamento della Tassonomia, la Legge Europea sul Clima e gli obblighi dell’UE definiti dall’Accordo di Parigi per contenere il riscaldamento globale. Per questo, lo scorso 8 settembre, otto uffici di Greenpeace (Germania, Francia, Spagna, Italia, Belgio, Lussemburgo, Europa Centrale e Orientale e la Greenpeace European Unit) avevano inviato una richiesta formale di revisione interna (Request of Internal Review) alla Commissione.
Richiesta che il 9 febbraio 2023 la Commissione ha respinto. Per questo, ad aprile 2023, Greenpeace presenterà un’azione legale presso la Corte di Giustizia Europea. Una direzione presa anche dal governo austriaco, che il 7 ottobre 2022 ha presentato ricorso contro il presunto greenwashing della Commissione su gas e il nucleare.
“Ricorriamo alla Corte di Giustizia Europea per rimuovere questa falsa etichetta green che si vorrebbe attribuire a gas e nucleare”, dichiara Ariadna Rodrigo, responsabile della campagna per la finanza sostenibile di Greenpeace EU. “Esamineremo la risposta della Commissione, ma la loro implacabile ipocrisia sui combustibili fossili e sul nucleare è semplicemente greenwashing e possiamo provarlo. Gli inquinatori, che Ursula von der Leyen vorrebbe premiare definendoli sostenibili, sono gli stessi colpevoli di molti dei disagi che oggi le cittadine e i cittadini europei affrontano per l’aumento del costo della vita e per l’emergenza climatica”.
L’azionista contro il Consiglio di Amministrazione. ClientEarth accusa il CdA di Shell
Dall’altra parte della Manica, a una settimana esatta dall’annuncio di Shell di aver raggiunto utili per 42 miliardi di dollari nel solo 2022, il 9 febbraio anche l’organizzazione no-profit ClientEarth si è rivolta al sistema giudiziario. Gli undici dirigenti della multinazionale britannica dell’Oil&Gas, citati in giudizio, sarebbero personalmente responsabili ai sensi del Companies Act per non aver adottato un piano strategico di decarbonizzazione in linea con l’accordo di Parigi. L’accusa mossa da ClientEarth, azionista della stessa Shell, ha trovato il supporto di investitori istituzionali che detengono collettivamente più di mezzo miliardo di dollari di patrimonio gestito nel gruppo petrolifero.
Il gruppo di investitori comprende, tra gli altri, i fondi pensione britannici Nest e London CIV, il fondo pensione nazionale svedese AP3, il gestore patrimoniale francese Sanso IS, Degroof Petercam Asset Management (DPAM) in Belgio, nonché Danske Bank Asset Management e i fondi pensione Danica Pension e AP Pension in Danimarca. Si tratta infatti della prima derivative action climatica, cioè una causa di responsabilità intentata dagli azionisti direttamente contro il consiglio di amministrazione.
"Il passaggio a un'economia a basse emissioni di carbonio non è solo inevitabile, ma sta già avvenendo. Eppure il Consiglio di amministrazione persiste con una strategia di transizione che è fondamentalmente sbagliata, lasciando l'azienda seriamente esposta ai rischi che il cambiamento climatico pone al futuro successo di Shell - nonostante il dovere legale del Consiglio di amministrazione di gestire tali rischi", ha affermato Paul Benson, avvocato senior di ClientEarth. “A lungo termine, è nell'interesse dell'azienda, dei suoi dipendenti e dei suoi azionisti - oltre che del pianeta - che Shell riduca le sue emissioni in modo più drastico e più rapido di quanto il Consiglio di amministrazione stia attualmente pianificando".
Nel mondo cresce il contenzioso climatico
See you in court! The rising tide of climate litigation (“Ci vediamo in tribunale! La crescente marea delle controversie sul clima”) . Era questo il titolo della sessione dedicata al contenzioso climatico tenutasi il 17 gennaio scorso, al World Economic Forum di Davos.
“Quasi il 70% dei casi riguarda progetti e governi, mentre il 30% riguarda aziende”, ha dichiarato durante l’evento Alice Garton, Director of global legal strategy presso la Foundation for International Law for the Environment, sottolineando il rischio finanziario dovuto alle cause per il clima “L'attuale tasso di vittoria per questi casi è del 50% e, purtroppo, la realtà è che il numero di cause probabilmente aumenterà” .
Secondo il Climate Change Litigation Data Base, banca dati internazionale gestita dal Sabin Center for Climate Change Law, tra gli Stati Uniti e il resto del mondo ci sarebbero infatti oltre duemila cause sul clima. I casi si verificano principalmente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Europa e in Australia, ma sono in aumento anche in America Latina, Asia e Caraibi.
I casi pendenti in Italia
In Italia in quella causa ormai nota come “Giudizio Universale”, più di 200 ricorrenti, tra cui 162 adulti, 17 minori (rappresentati in giudizio dai genitori) e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani – assistiti da un team legale composto da avvocati e docenti universitari fondatori della rete di giuristi Legalità per il clima - hanno citato in giudizio lo Stato italiano per inadempienza climatica, ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti, cui consegue la violazione di numerosi diritti fondamentali riconosciuti dallo Stato. Ad oggi, 13 febbraio, il processo è fermo alla seconda udienza.
Ma questo non è il solo caso di climate litigation pendente in Italia o relativi ad aziende italiane. Il 6 dicembre 2021, Rete Legalità per il Clima ha presentato un’istanza specifica dinanzi al Punto di Contatto Nazionale (PCN) per le linee guida OCSE contro due multinazionali italiane, incentrata sugli impatti climatici associati agli allevamenti intensivi, che mette in discussione la compatibilità di questa pratica con le Linee guida dell'OCSE per le imprese multinazionali. Sempre di fronte al PCN italiano, nel febbraio 2022 la Rete ha avanzato un’istanza contro ENI S.p.A per contestare il piano aziendale di ENI e gli impatti climatici ad esso associati, nonché la sua compatibilità generale alle Linee guida dell'OCSE.
A questa, nell’aprile dello stesso anno, è seguita contro il gruppo Stellantis ed FCA Italy (già FIAT) per l'acquisto di cobalto da miniere illegali nella Repubblica Democratica del Congo. Il procedimento, iniziato davanti al PCN italiano e trasmesso a quello olandese, è stato promosso dalla Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (FOCSIV) insieme a numerose associazioni e organizzazioni non governative italiane, è stata decisa al fine di avviare una verifica sulla trasparenza nell’approvvigionamento dei “Minerali da Conflitto”, ed in particolare del cobalto, elemento importantissimo anche in relazione alla transizione ecologica che le case automobilistiche si apprestano ad implementare.
Infine, nel dicembre 2022, Survival International Italia ha presentato sempre al PCN Ocse italiano una istanza specifica contro la multinazionale italiana Gruppo Pasubio per l'acquisto di pelle da bovini allevati in aree disboscate illegalmente in Paraguay.
Image: Wesley Tingey (Unsplash)