Se la strada del greenwashing è lastricata di buone intenzioni, su quella del circular washing, sua più recente e infida evoluzione, si inciampa spesso in superficialità e inesperienza. Eppure, mai come oggi, le aziende hanno bisogno di fare un buon marketing su sostenibilità e circolarità per rimanere competitive. Come riconoscere allora la vera economia circolare?
Ne abbiamo parlato con Fabio Iraldo, professore dell’Istituto di Management della Scuola Sant’Anna di Pisa e direttore del Green Economy Observatory presso l’Università Bocconi, nonché coautore (insieme a Michela Melis) del volume Oltre il Greenwashing (Ed. Ambiente).
Che cos’è il circular washing?
La prima cosa da dire è che il circular washing è più subdolo del greenwashing, perché ciò che comunemente viene definito circolare non sempre è positivo per l'ambiente. Quasi tutte le definizioni di economia circolare mettono in evidenza come questo modello sia mirato a minimizzare l'utilizzo di materia e a rendere più efficiente l’uso delle risorse naturali, al fine di diminuire l'impatto sull'ambiente di un prodotto, un processo o un'azienda. Quindi l'economia circolare si persegue sempre con l'obiettivo di produrre un beneficio per l'ambiente. Il problema è che spesso si tende a semplificare. Quasi a tutti - aziende, tecnici, consulenti, policy maker – viene spontaneo definire circolare ciò che chiude il ciclo, un prodotto o un processo che prevedono il riutilizzo, il riciclo o la riduzione di un materiale che sarebbe altrimenti diventato un rifiuto. Questa accezione di “circolare” è intuitiva e immediatamente fa scattare la logica del risparmio. Peccato che il più delle volte ci si dimentichi della seconda parte della definizione, cioè che l’economia circolare deve generare un beneficio per l'ambiente, altrimenti viene a mancare l’elemento essenziale.
Faccio un esempio molto chiaro, che per fortuna appartiene al passato. Una volta il riciclo della carta avveniva attraverso l'impiego di cloro per deinchiostrare: il processo però era talmente impattante, per via dei reflui scaricati nei corpi idrici, che annullava il beneficio di riciclare i rifiuti di carta.
So di dire una cosa un po’ “scandalosa”, però purtroppo nella mia esperienza è successo più di una volta che delle soluzioni apparentemente molto efficaci e affascinanti sotto il profilo dell'economia circolare, poi in realtà generassero degli impatti ambientali superiori rispetto a ciò che andavano a sostituire.
Quindi può avvenire che un'azienda si macchi di circular washing inconsapevolmente?
La verità è che spesso ci piace additare il lupo cattivo, ma il greenwashing e a maggior ragione il circular washing sono per la stragrande maggioranza inconsapevoli. Gli imprenditori hanno un fortissimo anelito a vedere valorizzato dal punto di vista competitivo il loro prodotto, ma c'è da capirli, perché hanno investito un sacco di soldi e quindi non vedono l'ora di poter incassare il risultato. Così si affidano a professionisti del marketing che a loro volta hanno fretta e valorizzano quello che vedono, quel che sembrerebbe logico. Purtroppo, però, l'impatto ambientale delle diverse soluzioni di economia circolare non è né immediato né intuitivo. Bisogna perciò dare alle aziende gli strumenti per riconoscere ciò che sembra economia circolare, ma in realtà non fa bene all'ambiente. E questi strumenti, prima ancora della comunicazione, devono accompagnare le scelte di progettazione e di produzione.
Quali sono questi strumenti?
Parlo di Life Cycle Assessment o LCA, di PEF (il Product Environment Footprint rilasciato dalla Commissione Europea) o altri sistemi riconducibili a matrici simili. Sono strumenti estremamente efficaci. E le aziende dovrebbero lasciarsi guidare da un tecnico che, utilizzando questi protocolli, fornisca informazioni metodologicamente robuste e con un livello di certezza ragionevole sul fatto che una determinata innovazione abbia un minore impatto della versione precedente di un prodotto o di un processo. Ci sono ovviamente casi in cui un’analisi LCA può dare risultati incerti, con margini di miglioramento troppo lievi, ma se il beneficio netto risulta significativo, allora l’azienda può serenamente mettere in pratica la misura di economia circolare che aveva programmato e poi anche comunicarla a ragion veduta.
C’è poi un’altra opzione, quella di affidarsi a sistemi di valutazione del livello di circolarità, che sono in genere metodi più “soft” rispetto all’LCA e non puramente quantitativi. Anche noi della Scuola Sant'Anna abbiamo ideato un check-up tool di questo tipo, già applicato in tantissime aziende. Bisogna però accertarsi che questi metodi includano misure del beneficio ambientale e che siano molto specifici, tarati su ogni settore e ogni singolo comparto.
Alla luce delle nuove norme dell'Unione Europea sui prodotti sostenibili, cosa rischia oggi un'azienda azienda che fa greenwashing?
Nell'ultimo pacchetto sull’economia circolare della Commissione europea c'è una proposta che va a emendare le due direttive fondamentali in tema di pubblicità – Misleading and comparative advertising e Unfair commercial practices. Questi emendamenti, se verranno apportati, saranno un ulteriore rafforzamento della tendenza già in atto da parte delle autorità che regolamentano il mercato a deliberare in materia di greenwashing facendo riferimento proprio a linee guida di matrice comunitaria o alla normativa privata (ISO 14021). Che cosa dicono queste normative? Che i termini vanno utilizzati con grande cautela e se un'azienda li utilizza in maniera distorta o sovra enfatizzata può essere punita. Si arriva a un massimo di sanzione economica monetaria pari a 5 milioni di euro. A cui si aggiunge il ritiro obbligatorio della campagna promozionale dal mercato, con relativa perdita di tutti gli investimenti pubblicitari, e a volte l’inibizione a lavorare con la pubblica amministrazione se questi comportamenti scorretti si sono verificati nell'ambito di capitolati e appalti della pubblica amministrazione.
Sanzioni così pesanti non rischiano a volte di portare al fenomeno opposto, quello che nel suo libro viene definito greenhushing?
C’è effettivamente il rischio che si crei un po’ di terrorismo psicologico, per cui le aziende adesso hanno paura a comunicare le proprie misure di sostenibilità, anche quando sono attuate correttamente. Però io ritengo che, senza esagerazioni, sia giusto che le aziende ci pensino due volte prima di comunicare in modo troppo disinvolto i vantaggi ambientali, veri o presunti, legati ai loro prodotti. Oggi davvero è più difficile trovare una pubblicità che non parli di sostenibilità piuttosto che il contrario. La Commissione Europea, prima della fine dell'anno, uscirà con un’iniziativa intitolata Substantiating green claims: un documento dove saranno esplicitate le accortezze che un imprenditore deve utilizzare prima di lanciarsi in una campagna di green marketing.
Già ora, comunque, sono tantissime le aziende che si stanno rivolgendo a tecnici specializzati, affiancandoli ai pubblicitari. È giusto che gli esperti di marketing facciano il loro mestiere di creativi, però è meglio che abbiano di fianco un cerbero - il tecnico - che gli dica cosa possono promuovere e cosa no per evitare di essere ingannevoli. Anzi, ci sono delle aziende, come ad esempio Gucci, che hanno creato un proprio comitato di esperti esterni per validare e indirizzare tutti i claim di sostenibilità.
La cosa interessante è che per la pubblicità “normale” non esistono pratiche simili. Il greenwashing è un fenomeno tale che sta generando delle reazioni nelle imprese molto più caute di quelle che si sono avute storicamente sulla pubblicità ordinaria. La differenza è che le pubblicità tradizionali fanno in genere affermazioni qualitative e quindi anche difficilmente contestabili, mentre un green claim si basa o dovrebbe basarsi su dati scientifici.
Cosa dire allora alle aziende per incoraggiarle a innovare in ottica circolare e a comunicare quello che fanno?
Abbiamo fatto degli studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali, su basi statistiche molto ampie, che dimostrano che chi parla di ambiente nelle proprie pubblicità e nel proprio marketing e lo fa essendo in grado di dimostrare quel che dice, ottiene risultati competitivi molto migliori dei concorrenti che non lo fanno. Quelli che stanno zitti, cioè i greenhushers, sono i peggiori dal punto di vista competitivo. La cosa un po’ triste è che lì in mezzo ci sono quelli che purtroppo fanno greenwashing, che da un punto di vista competitivo sono un filo meglio di chi sta zitto. Tuttavia si può dire tranquillamente che oggi un'azienda che decide di parlare seriamente delle cose che ha fatto e intende fare per l'ambiente e fa una campagna di marketing fondata su studi scientifici e non basata su messaggi fake, è sicuramente un'azienda destinata ad avere grandi vantaggi competitivi rispetto a tutti gli altri.
Immagine: Engin Akyurt (Unsplash)
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