Dal 2009 i Planetary Boundaries rappresentano una delle più efficaci visualizzazioni dei principali fattori di crisi dell’ecosistema globale, del loro “stato di avanzamento” e delle loro interconnessioni. In questo schema, realizzato a partire dalle ricerche dello Stockholm Resilience Centre, a lungo hanno figurato alcune voci classificate come not yet quantified (non ancora quantificate) e per una di queste voci solo a fine 2022 si è arrivati a un risultato certo. Si tratta delle novel entities, le “nuove sostanze”, che sono andate a fare compagnia agli altri sei dei nove limiti planetari per i quali è stata ormai superata la soglia di maggiore rischio.

Sarah Cornell e Patricia Villarrubia-Gomez hanno fatto parte del team che per la prima volta ha analizzato la situazione del limite planetario relativo alle nuove entità.  A Materia Rinnovabile hanno concesso una lunga intervista che mette in luce non solo le molteplici dimensioni del tema, ma apre anche una finestra sulla realtà e l’essenza del lavoro di ricerca.

Sarah Cornell e Patricia Villarubia Gomez

Perché la diffusione delle “nuove entità” nell’ambiente è stata inclusa tra i limiti planetari che stiamo superando a nostro crescente rischio?

SCIl quadro di riferimento dei limiti planetari spiega come le attività umane hanno cambiato il pianeta, partendo da un insieme di condizioni che sono relativamente stabili e che hanno dimostrato di essere climaticamente ed ecologicamente resilienti per migliaia di anni. Il punto è che particolari tipi di inquinamento chimico possono molto semplicemente cambiare il funzionamento del pianeta, non solo a livello umano, non solo a livello di una o due specie. Più precisamente direi che possono cambiare la co-evoluzione del sistema climatico fisico e della biosfera vivente, ed è per questo che le nuove entità o nuove sostanze rientrano nel framework dei limiti planetari.

Guardando allo schema grafico dei Planetary Boundaries sembra che si stia vivendo immersi in una “zuppa di nuove entità”. Quindi come prima cosa è utile dare una definizione: cosa si intende per novel entities?

SC – Sono tutte le sostanze chimiche sintetiche, che comprendono la plastica e altri tipi di materiali e organismi ingegnerizzati che in precedenza non erano presenti nell’ecosistema. Lo schema dei confini planetari assume come linea di base l’Olocene dove la presenza di queste nuove entità completamente sintetiche è pari a zero. Ma la definizione si estende anche a elementi naturali come i metalli pesanti, che vengono trasportati in vari modi e finiscono per essere presenti in luoghi dove non potrebbero essere se non a causa dell'attività umana.

PVG – Dopo la presentazione dei risultati delle nostre ricerche spesso ci è stato chiesto quante sostanze si sia effettivamente in grado di coprire con una qualche forma di regolamentazione rispetto al totale delle sostanze prodotte. Ma è praticamente impossibile comprenderle tutte. Oggi vengono prodotte globalmente più di 350.000 sostanze chimiche diverse. Ad esempio un report di pochi mesi fa ha rivelato che ci sono 16.000 sostanze diverse utilizzate nella produzione delle plastiche e appena l'1% è coperto dalla legislazione. E alcune migliaia di queste sono molto preoccupanti a causa della loro tossicità, mentre mancano informazioni pubbliche su provenienza e utilizzo di oltre 9.000 sostanze chimiche della plastica. Inoltre sono pochissimi i casi in cui i test di tossicità di una sostanza vengono eseguiti con una procedura adatta a definirne le caratteristiche a livello ecotossicologico, il che equivale a pensare che gli effetti della loro dispersione nell’ecosistema possano riguardare solo una parte di esso. Ovviamente non è così. Questo è anche uno dei motivi per cui abbiamo deciso di utilizzare nella nostra ricerca l'approccio Impact Pathway Analysis, che ci permette di avere una più ampia comprensione di queste sostanze chimiche considerate nel loro intero ciclo di vita.

Uno strumento come il regolamento europeo REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) secondo voi è efficace almeno per quanto riguarda il censimento delle sostanze chimiche "artificiali" nell'ambiente e le loro caratteristiche di pericolosità?

SC – Il regolamento REACH è un inizio davvero importante, ma c’è un grosso problema che riguarda la sua attuazione. I regolamenti sono ottimi di per sé, ma poi interviene l'interazione tra leggi, direttive, altri regolamenti, mercati, norme sociali e, naturalmente, i modi in cui il mondo biofisico risponde ai cambiamenti e trasforma queste sostanze e gli assemblaggi di sostanze e matrici in modi diversi. Tutto ciò significa che abbiamo bisogno di un'analisi molto più approfondita della normativa stessa e della sua attuazione. Quindi credo che, per quanto riguarda l’efficacia del REACH, siamo ancora molto lontani. È efficace in teoria, ma rimane una domanda aperta su quanto lo sia in pratica. Considerando tutte le fasi – dall'estrazione alla produzione, al consumo fino allo smaltimento finale nell'ambiente – ogni aspetto dell'esposizione a queste sostanze andrebbe valutato e monitorato, se vogliamo davvero comprenderne gli effetti a lungo termine e su larga scala. E non possiamo lasciare che a farlo siano solo una o due industrie altamente specializzate. È un problema planetario.

PVG Quando veniamo interpellate sembra ci sia solo una domanda: "Ok, ma dammi un numero per negoziare il nuovo Trattato Globale sulla Plastica che è in corso in questo momento, ho bisogno di un numero". Sembra semplice, ma in realtà si tratta di mettere un numero su cosa? Prendiamo le microplastiche: tutti chiedono numeri sulle microplastiche nell’ambiente, ma il punto è: in quale ambiente? Nella superficie dell'acqua del mare o nella superficie dell'acqua di un fiume, o nei sedimenti profondi, nella colonna d'acqua, nell'atmosfera, e dove nell'atmosfera, dove respiriamo o nell'atmosfera superiore, nei ghiacciai o nel suolo? E a quale dimensione della microparticella vuoi dare un numero? Perché a seconda della dimensione e anche della forma della particella, questa ha un impatto diverso a livello fisiologico e chimico e sulla tossicità. E la tossicità potenziale dove la misuri? Negli animali? Nei tessuti? E su quale tipo di plastica? Ovviamente riuscire a esprimere tutto con un numero sarebbe la “pallottola d'argento”, ma in tutti questi anni in cui abbiamo fatto ricerca ci siamo convinte che fornire un numero specifico sarebbe estremamente sbagliato.

SC – Questa è stata la mia battaglia personale. L'unica cosa che il quadro dei limiti planetari può fare è definire un confine oltre il quale la scienza non è più in grado di prevedere cosa accadrà. Il confine è un confine, non è un obiettivo, non è un budget. C'è questa sorta di misticismo magico intorno ai numeri, come se il limite dei due gradi che la scienza ha pragmaticamente definito per il clima fosse replicabile per definire nello stesso modo altri limiti. Abbiamo bisogno di “due gradi equivalenti” per le sostanze chimiche o per la biodiversità? Questi sono processi e fenomeni intrinsecamente e irriducibilmente complessi e, a dire il vero, lo è anche il clima, solo che negli ultimi settant’anni abbiamo creato una narrazione secondo cui il clima sarebbe prevedibile al livello di un grado senza cifre decimali. Ma i numeri nel quadro dei confini planetari non sono assolutamente equivalenti a quello che rappresentano i due gradi per il clima. Quindi per le novel entities dire che il limite è “più di zero” è assolutamente sufficiente. Le attività umane hanno modificato la composizione chimica del pianeta, la diagnosi è ormai chiara, ma la prognosi e la cura richiedono ben più di un numero. È disperante perciò sentire continuamente affermare che i politici hanno bisogno di un numero, ma un politico che vuole davvero che certe misure vengano attuate non chiede mai un numero, chiede una quantificazione assieme alla storia del sistema che c'è dietro. I sistemi complessi hanno alle spalle ormai un secolo di scienza che chiede di non ridurre tutto a numeri a meno che non si sia davvero sicuri di avere a che fare con un sistema deterministico. Eppure questo messaggio non viene recepito.

Considerare la complessità dei sistemi è invece l’obiettivo dell’approccio Impact Pathway Analysis, a cui si accennava prima...

PVGSì, considerando le diverse fasi del ciclo di vita delle sostanze possiamo identificare quali siano le diverse quantificazioni potenziali nel momento della produzione, dell’uso, del rilascio e dell’impatto sull’ambiente. Quando queste sostanze chimiche entrano nell'ambiente, vanno a modificare alcuni processi per i quali possiamo individuare diverse variabili di controllo, e utilizzando un approccio sistemico possiamo vedere quali siano le loro interconnessioni.
Abbiamo osservato che la principale variabile che controlla o potrebbe controllare le altre è la produzione. Quindi, se si pone un tetto alla produzione di plastica, che in ultima analisi è composta per il 99% da combustibili fossili, si potrebbe avere una modulazione o un bilanciamento, o una riduzione di altre variabili controllate all'interno del sistema. Ad esempio alcuni miei colleghi della Scientists’ Coalition for an Effective Plastics Treaty, la coalizione in cui ci siamo organizzati per partecipare al negoziato sul trattato ONU sulla plastica, hanno calcolato che la produzione di polimeri plastici è causa di emissioni di gas serra quattro volte superiori a quella dell'aviazione a scala globale. La plastica è quindi un attore chiave del cambiamento climatico e c'è chi sta cercando in tutti i modi di non far entrare questo tema nel dibattito. In questo momento la transizione ecologica punta a ridurre l’utilizzo delle fonti fossili per la produzione di energia, ma dall’altro lato si prevede che la produzione di plastica triplicherà nei prossimi anni. È per questo che nel dibattito il tema dovrebbe essere visto a livello sistemico, non concentrandosi su aspetti specifici come le microplastiche nell’ambiente o il riciclo.

Le plastiche sono il "cuore" della vostra ricerca. Ma quali sono le problematiche più specifiche relative a questo ambito? Come si affronta il tema “plastiche”?

SC – C’è un sorta di risveglio su questo tema se penso che ancora cinque anni fa persino tra scienziati ci dicevamo: "Beh, in realtà la plastica non può essere così pericolosa visto che tutti dicono che è sicura". Lavoravamo con tossicologi ambientali e la domanda ricorrente era: “ma è davvero così grave?”. Ritengo sia quasi impossibile eliminare il fattore umano nella valutazione di cosa è sicuro o rischioso, buono o cattivo, per questo abbiamo bisogno di ricomporre una “storia” che sia analitica e sistemica e allo stesso tempo riconoscere che si tratta di un problema che espone ingiustamente le persone a rischi, che è un problema di vincitori e vinti, di sfruttatori e sfruttati. Uno dei problemi che abbiamo è che per mettere insieme la storia dei danni ecologici ed eco-tossicologici e quelli alla salute umana siamo limitati dal fatto che le strategie di monitoraggio fino a poco tempo fa erano cieche rispetto a questi problemi. E abbiamo molte pressioni per mantenerle così come erano, in modo da avere dati comparabili. Significa che si può analizzare un problema a un certo livello, ma si finisce per trascurarne altri. E tutto ciò richiama il tema del rapporto tra scienza e politica. La scienza del XX secolo presentava un voluminoso documento e lo consegnava ai politici dicendo: "Ecco i dati. Dateci delle buone politiche”. Nel XXI secolo, il confronto è multi-stakeholder, ampiamente visibile e le discussioni molto accese. Questo mette gli scienziati in posizioni decisamente nuove e scomode. Ci sarebbe molto bisogno di processi di co-apprendimento tra scienza e politica, specie nella formulazione delle strategie, ma non credo che i responsabili politici stiano pensando a questo.

A proposito di politiche, le strategie adottate finora a livello globale o nazionale sono, secondo voi, almeno potenzialmente efficaci?

SC Penso che le grandi strategie “ombrello”, almeno a livello europeo, siano già presenti grazie a principi guida come il principio di precauzione, il concetto “chi inquina paga” e la prevenzione alla fonte. È un mix di politiche che però devono essere messe in atto insieme. Parlo di analisi e monitoraggio su scala trasversale, di polycentric governance, di coerenza e integrazione delle politiche. Sono approcci collaudati per la gestione ambientale e anche in questo caso l'Europa ha un patrimonio di decenni di politiche, come la Direttiva Habitat o le direttive sull'acqua, che coprono più scale e che rendono più coerente l'attuazione.

Lo sviluppo della chimica verde e dei materiali biobased potrebbe contribuire a ridurre la proliferazione di sostanze più pericolose nell'ambiente?

PVG Questo tipo di chimica non è la mia area di lavoro, ma quello che posso dire, sulla base delle narrazioni (fra)intese nelle politiche e nella società che ho sperimentato in questi ultimi anni, è che c'è molta confusione, soprattutto per quanto riguarda la terminologia. Spesso biodegradabile è usato come fosse sinonimo di compostabile. E bioplastica di origine vegetale diventa quindi sinonimo di compostabile e tutto questo è diventato a sua volta sinonimo di economia circolare.

Ma se gli additivi aggiunti al mix derivano dai combustibili fossili, o sono gli stessi aggiunti alle plastiche ricavate dai combustibili fossili, alla fine non si otterrà altro che una plastica “tradizionale” in cui solo il polimero principale è diverso (ad esempio, mais o canna da zucchero). Alla fine credo che dovremmo valutare quanto sia davvero essenziale tutta la plastica che stiamo usando e producendo. Di quali plastiche abbiamo veramente bisogno? Se alcune sono assolutamente necessarie allora va bene cercare le alternative più sicure che possiamo ottenere. Ma forse non abbiamo bisogno della plastica per impacchettare una singola noce di cocco, come mi capita di vedere nei supermercati…

Un’ultima domanda. Come riportato nell'articolo pubblicato su Environmental Science & Technology, il monitoraggio ambientale è mirato alle nuove entità conosciute. E quelle "sconosciute"?

SC – Questo ci riporta all’inizio, all’immagine della “zuppa di nuove entità” e alla loro definizione. Penso che questa definizione dovrebbe essere aperta, proprio perché noi esseri umani abbiamo la capacità di creare sostanze che hanno effetti ecologici o climatici completamente imprevedibili rispetto a quelli che pensavamo potessero avere. Quindi, in questo senso, il nome novel entities è un ombrello volutamente ampio, cosa che però diventa un problema reale nel contesto ad esempio delle plastiche, dove abbiamo bisogno di politiche molto concrete. Non è sufficiente dire di non produrre sostanze che potrebbero o meno avere impatti a livello planetario su tempi di 10.000 anni o più. Ma in fondo è proprio questo che chiediamo.

 

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Immagine di copertina: yogendras31, Pixabay