Due sono i megatrend che influenzeranno (è già stanno influenzando) il mercato del lavoro europeo nel prossimo decennio: da un lato la doppia transizione, ecologica e digitale, che richiede nuove qualifiche sempre più avanzate e a ritmi piuttosto rapidi; dall’altro, una popolazione che invecchia e ha bisogno di un’assistenza adatta a vite più lunghe e non ospedalizzate, e professionisti preparati per offrirla. Ma se la curva della disoccupazione (salvo qualche eccezione nell’Europa mediterranea) è in costante calo, c’è un altro problema che invece diventa sempre più pressante: la skills poverty, o povertà di competenze.
Alla questione – che si declina sia come carenza di professionisti qualificati sul mercato del lavoro che come difficoltà o diseguaglianza nell’accesso alla formazione – è dedicato un nuovo report commissionato dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), e richiesto in particolare dal Civil Society Organisations' Group. Il titolo è un intento programmatico, ed è anche la forma con cui il CESE intende porre il problema alla Commissione europea: How to eradicate skills poverty among the most vulnerable? (Come sconfiggere la povertà di competenze tra le fasce più vulnerabili?). Ne abbiamo parlato con il presidente del Civil Society Organisations' Group del CESE, Seamus Boland.
Secondo dati Eurostat, la quota di disoccupazione nell’Unione Europea a marzo 2024 si attestava poco sopra una media del 6%. Cosa ci dice questo dato sull’attuale mercato del lavoro europeo?
Il trend attuale mostra una decrescita del tasso di disoccupazione. C’è però in tutta Europa anche una crescente carenza di competenze, in parte da collegare alla recessione finanziaria fra la metà degli anni Dieci e il 2020, periodo in cui non si è fatta molta formazione. Oggi, fortunatamente per i giovani, la disoccupazione sta diminuendo, ma sfortunatamente si è palesata una mancanza di competenze che sarebbero necessarie. Insomma, anche se trovano lavoro, i giovani spesso non sono formati per i compiti richiesti. Stiamo dunque ora scoprendo di avere un grosso problema che riguarda sia l’offerta di competenze sul mercato del lavoro che l’accessibilità alla formazione.
A questo proposito, il report commissionato dal CESE introduce il concetto relativamente nuovo di “skills poverty”, o povertà di competenze. Qual è esattamente la definizione?
Come dicevo, significa che non ci sono sufficienti competenze per soddisfare i requisiti di occupazione. Quindi “povertà” in termini di qualifiche e professionalità disponibili sul mercato del lavoro, ma anche nel senso che, per varie ragioni, i giovani non hanno avuto uguali possibilità di accesso alla formazione. Questo vale in particolare per i paesi più colpiti dalla recessione economica, ma in generale è una situazione che riguarda tutta l’Europa, dove non siamo stati capaci di offrire una formazione professionale sufficiente a soddisfare la domanda. C’è poi una terza causa, che in realtà è sempre esistita in alcune aree particolarmente povere: l’abbandono scolastico in giovane età, dovuto a problemi sociali e alla particolare vulnerabilità di alcune fasce.
Quali sono i fattori che influenzano maggiormente la domanda di nuove competenze nell’attuale mercato del lavoro?
È un periodo di grandi cambiamenti nelle nostre vite. La transizione verso un’economia verde e l’uscita dalle fossili richiedono un'intera serie di nuove competenze, e semplicemente non stiamo tenendo il passo. I governi e l’Unione Europea non stanno finanziando il cambiamento con la rapidità che servirebbe. E inoltre, con l’ingresso dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, adesso dobbiamo affrontare un enorme cambiamento nelle competenze digitali richieste. Persino qualifiche di appena cinque anni fa devono ora essere completamente e rapidamente aggiornate. Quindi, purtroppo, a meno che le aziende private (come avviene in alcuni casi nel settore digitale) non forniscano la formazione, le competenze tradizionali, che si tratti di idraulica, edilizia, trasporti o utilities, hanno bisogno di essere aggiornate per adeguarsi alla transizione green e digitale. Ed è qui che stiamo davvero perdendo il passo.
Nel report si evidenzia anche una carenza di competenze nell'assistenza sanitaria e nella cosiddetta silver economy...
La silver economy è ovviamente un settore in crescita perché aumenta la popolazione in età avanzata, e questo richiede un approccio completamente nuovo all'assistenza sanitaria. Nel prossimo futuro, gran parte di questa assistenza avverrà direttamente nelle case delle persone, sia perché saranno in condizioni di salute migliori, sia perché non abbiamo per ora abbastanza strutture residenziali per gli anziani. Per fare un esempio, c'è una crescente domanda di qualifiche in terapia occupazionale, visto che invecchiando, benché in condizioni di salute migliori, le persone possono avere problemi di artrite o altri problemi fisici che influiscono sulla vita di tutti i giorni, e hanno bisogno di rieducare le loro abilità quotidiane e anche di riprogettare le proprie case per adattarle alla loro nuova situazione.
Si accennava prima alla disparità nell'accesso alla formazione. Quali sono i fattori alla base di questa “disuguaglianza” delle competenze nella società europea?
La disuguaglianza ha origine nella possibilità economica di accedere o meno alla nuova formazione. Alcuni settori, come il digitale, sono estremamente bravi a supportare le persone che hanno bisogno di essere riqualificate o di acquisire competenze completamente nuove. Il settore sanitario e molti altri settori devono invece fare affidamento sul servizio pubblico per fornire la formazione necessaria. Ed è in quest'area che sembra verificarsi la carenza più grande di competenze. In altre parole: l'investimento necessario per aumentare il livello di qualifica sta diminuendo. Questo è il problema più grande.
Quindi, c'è un grosso problema di accessibilità economica. In alcuni casi, però, la disparità non ha anche origine da una mancanza di conoscenze di base in alcune aree, come l'alfabetizzazione digitale?
In effetti ci sono ancora difficoltà con l'alfabetizzazione e la matematica di base, con le competenze linguistiche e quelle sociali. Affinché chiunque possa riqualificarsi o anche solo acquisire nuove competenze di qualsiasi genere, ha bisogno di quelle di base. E qui si deve guardare all'istruzione elementare. Se un giovane adulto arriva a 15 o 16 anni con una carenza di alfabetizzazione e matematica, allora la formazione diventa piuttosto difficile, per usare un eufemismo. Nella mia vita precedente ero un responsabile della formazione, soprattutto per giovani che provenivano da contesti difficili. E in quelle situazioni abbiamo sempre dovuto riprogettare i corsi e, in molti casi, portare la formazione nelle comunità locali.
Occorre dunque agire a diversi livelli – aziendale, istituzionale, comunitario...
Sì, è una questione molto complessa, che riguarda l'intero sistema. Qualche anno fa fui coinvolto in un altro studio sul livello di accesso all'istruzione precoce, per i bambini sotto i cinque anni, che dimostrava come anche l'apprendimento infantile sia essenziale. Quindi anche parlando di competenze professionali, bisogna parlare di accesso all’istruzione infantile, perché c’è un'intera gamma di problemi di apprendimento, come la dislessia, che possono essere risolti solo in giovane età. Ma, se non si superano quelle prime difficoltà, ci si troverà di fronte a problemi più grandi. E temo che molti giovani si trovino in questa situazione.
Tornando a parlare di formazione per adulti, come si affrontano le sfide del re-skilling e up-skilling?
È tutta questione di valutazione e accesso. Se un lavoratore adulto ha una specifica competenza che non è più utile o richiesta, o perde il lavoro o si riqualifica. Ma per farlo, prima di tutto occorre fare un assesment del suo livello di competenze, e anche delle sue capacità e modalità di apprendimento, perché le persone imparano in modi diversi e a ritmi diversi. Non si può semplicemente mettere sul piatto una nuova abilità da acquisire e sperare che vada tutto bene. Bisogna fare una valutazione corretta, capire se il nuovo livello di abilità è accessibile per quella persona e compiere i passi necessari per arrivare al risultato. Insomma, un re-training ben progettato.
Ma come si può comunicare alle persone questa necessità di riqualificazione? Molti cittadini europei sono oggi spaventati dalla transizione verde e digitale perché hanno paura di perdere il lavoro o di perdere autorevolezza nel proprio campo. Come far passare allora il messaggio che questa potrebbe essere un'opportunità e non una tragedia?
La mia risposta preferita è che bisogna fare in modo che ogni azienda, ogni agenzia, ogni datore di lavoro introduca una cultura della riqualificazione e formazione permanente. Ciò significa che gli adulti, dal momento in cui assumono una posizione lavorativa, sanno che avranno varie opportunità di riqualificarsi e di accedere a nuove competenze. È un'ottima abitudine, e rende le cose più facili anche nel caso in cui si perda il lavoro. Se così non è, allora deve essere lo Stato a intervenire, fornendo l'assistenza necessaria e l'infrastruttura di formazione.
Un’ultima domanda: qual è il ruolo del CESE in questa grande sfida?
Il nostro lavoro è assicurarci che le varie organizzazioni della società civile coinvolte nella formazione, specialmente nelle comunità vulnerabili, ricevano il supporto di cui hanno bisogno. Spesso lavorano a livello volontario, in situazioni di scarsi finanziamenti, ma di solito sono proprio queste organizzazioni le prime a individuare le persone che hanno bisogno di aiuto. Il CESE è un organo consultivo della Commissione e del Consiglio europei. Perciò il nostro compito – e il motivo per cui abbiamo redatto questo report – è far arrivare il messaggio al Consiglio europeo e in particolare al DG Employment, per riuscire a superare questa situazione di povertà di competenze e garantire a tutti, giovani e adulti, il diritto alla formazione e riqualificazione professionale.
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Immagini: Seamus Boland