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L’Azerbaigian, il paese che ospita la COP29 sul clima di Baku, lo sappiamo bene, non è certo un protagonista in positivo della transizione energetica, e non è nemmeno uno stato che si segnala per democrazia e apertura liberale. Anzi. Quel che è certo è che dopo l’invasione dell’Ucraina, e la conseguente riduzione ai minimi termini delle importazioni di petrolio e gas proveniente dalla Russia, l’Italia ha riorganizzato in modo radicale le fonti di approvvigionamento, scommettendo fortemente tra l’altro (oltre che sull’Algeria) proprio sull’Azerbaigian.
E secondo uno studio del think tank sul clima ECCO, diffuso proprio nella mattinata di apertura della COP29, l’Azerbaigian destina il 57% delle proprie esportazioni petrolifere all’Italia, che costituisce il principale mercato di sbocco per il petrolio azero, mentre sul fronte del gas esporta in Italia circa il 20% della propria produzione, posizionandosi come secondo fornitore di gas per l’Italia dopo l’Algeria.
Una dipendenza che secondo la ricerca − supportata dall’analisi dell’Oxford Institute for Energy Studies (OIES) − rischia di creare ripercussioni non indifferenti in futuro. In primo luogo per l’Azerbaigian stesso, che è un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e che molto presto dovrà fare i conti con una domanda europea destinata a diminuire di qui al 2030, e dunque non giustifica nuovi investimenti infrastrutturali. Ma i rischi ci sono anche per l’Italia, che potrebbe impegnare risorse significative − anche pubbliche, attraverso le partecipate del settore fossile − in gasdotti e opere che saranno stranded assets, cioè difficilmente potranno essere ripagate nei loro costi.
Petrolio e gas, le prospettive per l’Azerbaigian
L’Azerbaigian può essere definito a buon diritto un “petrostato”. A oggi, infatti, i combustibili fossili rappresentano oltre il 90% dei suoi proventi da esportazioni, il 60% delle entrate pubbliche e il 35% del prodotto interno lordo (PIL). Il 95% delle esportazioni dell'Azerbaigian è composto da petrolio e gas naturale, e i paesi dell'Unione Europea, in primis l’Italia, rappresentano oltre la metà delle esportazioni totali del paese. Secondo lo studio di ECCO, non emergono però condizioni di domanda stabili del mercato del gas europeo tali da giustificare nuovi investimenti infrastrutturali oltre a una limitata disponibilità di volume di offerta di gas azero.
L’incremento della capacità di trasporto del TAP (gasdotto Trans Adriatic Pipeline), che dovrebbe passare da una capacità di 10 a 20 miliardi di metri cubi l’anno, non sembra giustificato all’interno di scenari che vedono l’Italia e l’Europa perseguire un percorso coerente con gli obiettivi climatici nazionali ed europei al 2030, nonché con gli impegni internazionali dell’Accordo di Parigi. Gli scenari del report Lo stato del gas, e nello specifico quello di decarbonizzazione del Fit-for-55 costruito su una domanda di gas come data dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC), dimostrano come l’infrastruttura esistente sia già in grado di coprire i volumi di consumo richiesti, e addirittura assicurare un volume di export dell’Italia di oltre 7 miliardi di metri cubi l’anno.
Per quanto riguarda l’offerta, invece, secondo uno studio dell’Oxford Institute for Energy Studies (OIES), entro il 2030, ipotizzando il più basso livello plausibile di produzione di gas azero e a fronte di una domanda interna che rimane stabile, non ci sarebbero volumi residuali di gas disponibili per l’esportazione verso la Turchia e i partner europei. Se si ipotizza il massimo livello plausibile di produzione, entro il 2030 potrebbero essere disponibili al massimo 15 miliardi di metri cubi l’anno di gas incrementale in aggiunta ai volumi già contrattualizzati. Tale stima potrebbe ridursi nuovamente entro il 2035 a causa del declino naturale del giacimento.
Insomma, conclude l’analisi di ECCO, l’Italia dovrebbe considerare tre aspetti nelle sue relazioni politiche ed economiche con l’Azerbaigian. Primo, scommettere sul gas significa rischiare di generare investimenti che andranno persi in quanto non più remunerativi. In merito, gli investimenti delle principali società partecipate coinvolgerebbero e metterebbero a rischio anche capitali pubblici. Secondo, si legge, impostare una relazione incentrata sul gas senza prevedere misure di supporto alla diversificazione economica significa condannare il paese a un futuro di entrate incerte e a rischio, con ripercussioni sulla sostenibilità di bilancio e la salute economica dell’esportatore. Infine, l’Italia, in quanto primo partner commerciale, dovrebbe farsi promotore di misure che possano accompagnare il processo di diversificazione economica dell’Azerbaigian, per esempio tramite l’attivazione di nuove forme di diplomazia economica e industriale per l’identificazione di progetti a zero emissioni che possano favorire lo sviluppo di settori alternativi a quello petrolifero e di una pianificazione a lungo termine.
Quali rischi corre l’Italia?
Considerazioni che sono condivise solo parzialmente da Massimo Nicolazzi, profondo conoscitore del settore con quasi 35 anni di esperienza nel mondo degli idrocarburi. Nicolazzi ha lavorato per Eni e Lukoil prima di essere nominato amministratore delegato di Centrex Europe, è un consulente energetico indipendente, senior advisor del Programma di sicurezza energetica dell’ISPI e professore di economia delle fonti energetiche all’Università di Torino, oltre che membro del comitato scientifico della rivista geopolitica Limes. Il primo tema che sottolinea il professore è che dal punto di vista dell’Italia non si può realisticamente parlare di dipendenza energetica del nostro paese dall’Azerbaigian. “Da quel paese arriva circa un terzo del gas che arriva in Italia dall’Algeria − spiega − e se vogliamo parlare di gas in generale, il maggior fornitore all’Europa quest’anno sono stati gli USA, attraverso il gas naturale liquefatto. Certamente si può ampliare l’infrastruttura che ci porta il gas azero da laggiù, ma si tratterà comunque di una quota ragionevolmente limitata dei consumi italiani.”
Ma pensando agli aspetti politici, considerando il record democratico non certo esemplare dell’inamovibile presidente Ilham Aliyev che è succeduto a suo padre Heydar Aliyev, non è un pericolo per l’Italia mettersi nelle mani di un altro leader autoritario, per giunta impegnato in un conflitto militare e diplomatico con l’Armenia per il Nagorno Karabakh? “Tutti gli scenari sono sempre possibili: basti pensare che per un paio di settimane nel 1914 dopo l’omicidio dell’Arciduca austriaco a Sarajevo nessuno riteneva probabile una guerra”, è la replica di Nicolazzi. “Ma difficilmente vedo rischi per gli approvvigionamenti dell’Italia. Un paese come l’Azerbaigian, che ha una forte dipendenza dalla rendita petrolifera, può temporaneamente sospendere le forniture, ma poi per chiunque governi l’esportazione di idrocarburi è il primo elemento di cassa per welfare, spesa sociale, investimenti e budget interno.”
Lo studio di ECCO ricorda come il Piano nazionale integrato energia e clima del governo (PNIEC) preveda il raddoppio della capacità del TAP, il gasdotto che collega i Balcani all’Italia sotto il mar Adriatico. In prospettiva dal 2026 ci sarà una maggiore capacità di importazione di gas, ma servirà anche un potenziamento della rete di metanodotti che collegano il TAP alla linea adriatica. Rischiano di essere investimenti non remunerativi, resi presto inutilizzati dal declino della domanda di gas? “La mia premessa è che come ha dimostrato lo scenario mondiale post 2022 l'unica forma di sicurezza energetica che fino a oggi siamo riusciti a sviluppare è la ridondanza, con scorte strategiche di petrolio e gas”, risponde Nicolazzi.
Secondo l’esperto, “un po’ di ridondanza è utile, soprattutto se è fatta con capitale di rischio da aziende private. Un conto è se dovesse essere lo stato, e dunque i contribuenti, a finanziare queste infrastrutture. Ma se qualcuno ha voglia di correre il rischio di investire in quello che potrebbe diventare uno stranded asset, lasciamolo fare”. E se si tratta di imprese partecipate dallo stato, come Eni e Snam? “Mi sembra che distribuiscano profitti”, è la conclusione.
In copertina: La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, incontra a Palazzo Chigi il presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il 5 settembre 2024 © Palazzo Chigi