Sono quasi due anni che le mascherine sanitarie ci tengono compagnia. Ogni giorno le compriamo, le indossiamo affinché ci proteggano dal virus, e infine le buttiamo quando esauriscono la loro funzione. Spesso le vediamo in terra, abbandonate sul marciapiede o sulle rive di un fiume, quando invece dovrebbero essere cestinate tra i rifiuti indifferenziati. In un mondo che sembra invaso da mascherine, Materia Rinnovabile si è interrogata sulle problematiche e opportunità del loro riciclo, raccontando i progetti e le pratiche di riciclo più virtuose in Italia e nel mondo.
Quante mascherine (e guanti) consumiamo in Italia e che fine fanno
Prima di affrontare il tema del riciclo è necessario inquadrare a livello normativo la mascherina sanitaria o chirurgica in quanto rifiuto e contestualizzare numericamente la mole di rifiuti di cui stiamo parlando. Nel maggio 2020, siccome il tempo di sopravvivenza del virus sui rifiuti poteva difficilmente essere calcolato, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro diede l’indicazione che le mascherine e guanti avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti indifferenziati, ma sempre raccolti dentro un altro sacchetto chiuso per evitare contatti da parte degli operatori ecologici. Queste indicazioni sono tuttora valide. “Serve per tutelare quella che è la catena di gestione di rifiuti - spiega Valeria Frittelloni, responsabile del Centro Nazionale dei rifiuti e dell'economia circolare per Ispra, - cioè eliminare dalla raccolta differenziata un potenziale rischio infettivo per gli operatori che separano, spesso attraverso procedure manuali, i rifiuti recuperabili e riciclabili. Discorso diverso invece per rifiuti ospedalieri che provengono dai reparti infettivi; questi seguono una particolare gestione regolata da un decreto del Presidente della Repubblica del 2003”.
In sostanza, non essendoci una raccolta differenziata, le mascherine sono destinate alla discarica o, nella migliore delle ipotesi, all’inceneritore. Analizzando però i dati sulla produzione di questi rifiuti, Frittelloni esclude che ci siano allarmi e criticità. Secondo le più recenti stime di Ispra il fabbisogno giornaliero di mascherine si aggirerebbe intorno ai 35/40 milioni di pezzi. La produzione di rifiuti annua, considerato il numero di mascherine e guanti per abitanti, uso e peso medio del dispositivo, si aggirava nel 2020 attorno alle 300mila tonnellate. “Sui 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani annui rappresentano un percentuale davvero esigua – dice Valeria Frittelloni a Materia Rinnovabile – Questi rifiuti non vengono prodotti in quantità tali da giustificare la presenza di impianti dedicati per la loro gestione. L’allarme ambientale è più che altro nella dispersione delle mascherine e altri materiali leggeri”.
“Al momento le priorità non sono certo le mascherine – conclude Frittelloni – dobbiamo ancora risolvere il problema dei 7 milioni di tonnellate di rifiuti urbani che finiscono tuttora discarica. Plastica, frazione organica, carta: rifiuti assolutamente recuperabili”.
Politecnico di Torino: esperimenti di riciclo del polipropilene
In ottica di economia circolare, per ragioni numeriche e sanitarie, la raccolta differenziata e un eventuale riciclo dei dispositivi di protezione individuale non sembrano dunque una priorità, in tutto il mondo diverse università e start up si stanno tuttavia impegnando a trovare soluzioni per il riciclo del polipropilene contenuto nelle mascherine, una materia plastica utile per diverse applicazioni.
Per capire meglio le reali possibilità di riciclo è necessario capire come siano fatto le mascherine chirurgiche. Innanzitutto sono composte da tre strati di TNT (tessuto non tessuto) di un materiale plastico chiamato polipropilene, che per le sue caratteristiche si presta alla funzione richiesta. “Le mascherine sono generalmente fatte da una parte filtrante in polipropilene – spiega Daniele Battegazzorre, tecnico di laboratorio al Politecnico di Torino - La parte del naso invece è di solito composta da un metallo avvolto da plastica. Anche gli elastici sono piuttosto eterogenei. Tutto questo implica un processo separazione di materiali che complica il riciclo”. Il dottor Battegazzorre e il professor Alberto Frache del dipartimento di Scienze applicate e tecnologia dei materiali del Politecnico di Torino hanno recentemente pubblicato sulla rivista Polymers una ricerca che dimostra le reali possibilità di riciclo delle mascherine. “Il processo di riciclo utilizzato è termomeccanico – spiega Frache - Abbiamo pensato a quattro processi differenti per ottenere quattro materiali termoplastici con caratteristiche un po’ diverse l’uno dall’altro, dai quali si possono ottenere oggetti in plastica che possono essere stampati a iniezione oppure estrusi”. Lavorando con il polipropilene si possono fare tastiere per pc, sgabelli, cover per gli smartphone, panchine e tantissimi altri oggetti.
Tuttavia con la plastica riciclata non si possono riprodurre altre mascherine per due ragioni. “Il primo perché le mascherine sono dispositivi che vanno a contatto con la bocca e per legge devono essere fatte di materie plastiche vergini – dice Daniele Battegazzore a Materia Rinnovabile. Il secondo è la finitura di queste fibre. Non possono avere imperfezioni che potrebbero compromettere la capacità di filtraggio”.
“Inizialmente abbiamo testato solamente mascherine nuove. Poi grazie alla collaborazione con il comune di Mondovì (Cuneo) e l’associazione culturale Circolo delle idee che ha raccolto nel mese di giugno un bel numero di mascherina usa e getta del Liceo Vasco-Beccaria-Govone, le abbiamo portate in un centro per la sanificazione e abbiamo testato il riciclo di mascherine eterogenee, di diverso colore e tipi di elastici”.
Secondo Alberto Frache, gli step per rendere possibile il riciclo sono due: “Per prima cosa si dovrebbero differenziare le mascherine monouso almeno in quei contesti dove è più semplice raccogliere il rifiuto, come la scuola o le fabbriche. La sanificazione sarebbe lo step successivo, ma non essendo virologi non possiamo esprimerci con assoluta certezza sulla sterilizzazione e abbattimento del virus”.
Nuove strade in Australia
In Australia il ricercatore Mohammad Saberian Boroujeni del Royal Melbourne Institute of Technology ha studiato un sistema per trasformare le mascherine in asfalto. “In primo luogo, le mascherine devono essere raccolte ed estratte da altri flussi di rifiuti – spiega Boroujen a Materia Rinnovabile - Possono essere estratte dal resto del flusso di rifiuti usando getti e barriere d’aria. Successivamente le mascherine devono essere disinfettate e triturate in fibre con una lunghezza di 2 cm e una larghezza di 0,5 cm. Infine queste fibre sono pronte per essere miscelate con macerie edili lavorate o aggregati di cemento riciclato”. L’università di Melbourne sta progettando di costruire una strada con questo materiale e ci sono alcune aziende locali interessate a collaborare al progetto.
“Le mascherine facciali hanno alcune proprietà sorprendenti, tra cui elevata resistenza alla trazione e duttilità – continua Boroujeni - Utilizzarle potrebbe fornire maggiore resistenza e flessibilità alla base e alla sottobase delle strade”. Per questa applicazione, non è necessario separare gli strati di propilene poiché sarebbe un processo impegnativo. “Tutti gli strati delle mascherine possono essere riciclati e riutilizzati per le costruzioni stradali”, ci assicura il ricercatore.
Riciclo chimico Germania
In Germania invece si punta al riciclo chimico nel progetto che coinvolge Fraunhofer Institute UMSICHT, SABIC e Procter & Gamble . L’azienda P&G ha iniziato a raccogliere le mascherine chirurgiche usate dei dipendenti nei suoi siti produttivi. I rifiuti vengono poi portati a una struttura sperimentale di pirolisi. “Un prodotto sanitario monouso come una mascherina chirurgica ha elevati requisiti di igiene, sia in termini di smaltimento che di produzione. Il riciclaggio meccanico non avrebbe funzionato”, spiega Alexander Hofmann, a capo del dipartimento Gestione del Riciclo presso Fraunhofer UMSICHT. “Nella nostra soluzione, quindi, abbiamo prima triturato automaticamente le mascherine, poi le abbiamo convertite termochimicamente in olio di pirolisi”. Secondo Hofmann, la pirolisi scompone la plastica in frammenti molecolari sotto pressione e calore, che distruggeranno anche eventuali inquinanti o agenti patogeni residui, tra cui il coronavirus. In questo modo sarebbe possibile produrre materie prime che possono soddisfare anche i requisiti dei prodotti sanitari.
In Francia e in Canada
Plaxtil, una piccola start-up di Châtellerault, comune della Nuova Aquitania francese, sta raccogliendo le mascherine usate in postazioni strategiche come centri commerciali o farmacie; per poi lasciarle in quarantena per quattro giorni. Dopo l’eliminazione a mano del ferretto per la chiusura nasale, vengono frantumate in una macchina speciale e sterilizzate, facendole passare in un tunnel a raggi UV. Il passaggio successivo è la miscela con una resina speciale, per indurire il materiale fino alla consistenza giusta. In questo modo si possono produrre diversi oggetti, anche anti-Covid, come le visiere protettive trasparenti.
L’azienda Vitacore, che ha sede in un piccolo sobborgo di Vancouver in Canada, ha studiato un modo per ricavare materiale da costruzione riciclando mascherine. In primo luogo, i dispositivi vengono igienizzati a fuoco alto. Poi il materiale plastico viene sminuzzato e preparato per la fusione. Una volta fuso, si ottengono i pellet di polipropilene che vengono riutilizzati in materiali da costruzione e come rinforzo del calcestruzzo.
Le mascherine biodegradabili possono essere una soluzione?
“Ci sono diversi fattori che rendono complicato l’utilizzo di materiali biodegradabili – spiega Alberto Frache - I materiali poliesteri sono molto più sensibili all’umidità e non credo sia semplice farne un tessuto come quello delle mascherine. Al momento i materiali biodegradabili costano il doppio e sono di difficile reperibilità. Dal punto di vista della riciclabilità non vedo criticità, ma le mascherine buttate per terra rimangono, anche se sono biodegradabili”.
L’Istituto di Tecnologia di Losanna, in Svizzera, sta sperimentando HelloMask, una plastica ricavata al 99% da biomasse. È trasparente, filtra al punto giusto ed è, ovviamente, biodegradabile, ma costa troppo.
Si parla, infine, di insostenibilità finanziaria per produzioni su ampia scala anche per un’altra idea nata in Australia. La Queensland University of Technology sta testando un tessuto ricavato da scarti della canna da zucchero: le fibre di cellulosa lo renderebbero capace di filtrare le nano particelle delle dimensioni dei virus, lasciando una buona capacità di respirazione.
Immagine: ph Daniel Tafjord, art Pobel (Unsplash)