Non è un caso che tra le immagini più emblematiche scelte per rappresentare l’Antropocene ci siano spesso delle cave. Di sabbia, di pietra, di marmo, di gesso, di argilla. Quale che sia il materiale da estrarre, il colpo d’occhio è sempre impressionante: fianchi di montagne sventrati, porzioni di territorio tagliate di netto, voragini aperte in sedimenti di milioni di anni, come se un’enorme lama fosse calata all’improvviso a portare via una fetta di pianeta.
Le cave sono il punto di partenza del modello di produzione e consumo che ci ha portati sino a qui: l’
estrazione continua di materia prima, che poi finirà in discarica, è la base dell’economia lineare. Per questo il rapporto che Legambiente stila dal 2008 sullo stato delle cave italiane è un ottimo indicatore per capire a che punto siamo nella transizione circolare, soprattutto per quanto riguarda il settore dell’edilizia e delle costruzioni.
Il quadro che emerge dal
Rapporto Cave 2021 parla di una crisi del settore che arriva da lontano e che ha portato a una diminuzione delle cave attive e autorizzate (4.168 su tutto il territorio) e a un aumento di quelle dismesse o abbandonate (14.141), che nella maggior parte dei casi non vedranno nessun ripristino ambientale. Il Rapporto di quest’anno si concentra tuttavia anche sulle buone pratiche di recupero dei materiali edili e di riciclo, per dimostrare che la strada verso l’economia circolare nel settore delle costruzioni si può intraprendere sin da ora, smettendo di devastare il territorio e il paesaggio per estrarre materie prime.

Il punto sulle cave in Italia

La crisi del settore edile cominciata nel 2008 fa ancora sentire i suoi effetti. Rispetto all’edizione precedente del rapporto, nel 2017, il numero di cave attive e autorizzate su territorio italiano è passato da 4.752 a 4.168. Impressionante è il numero di cave dismesse o abbandonate, che aumenta dalle 13.414 del 2017 alle 14.141 attuali. Le regioni con più cave dismesse sono la Lombardia, con oltre 3.000 siti chiusi, la Puglia (2.522) e la Toscana (2.400). Il problema è che solo una minima parte di questi siti sarà interessata a qualche tipo di operazione di ripristino ambientale, tutte le altre rimarranno a perenne sfregio del paesaggio.
Per quanto riguarda la tipologia di materiali escavati, le
cave di inerti e quelle di calcare e gesso rappresentano oltre il 64% del totale delle cave autorizzate in Italia. La porzione maggiore è prevedibilmente di sabbia e ghiaia, di cui vengono estratti ogni anno 29,2 i milioni di metri cubi; segue immediatamente il calcare, con 26,8 milioni di metri cubi. Più basse le quantità di materiali di pregio, come il marmo e le pietre ornamentali, di cui vengono estratti annualmente 6,2 milioni di metri cubi, in buona parte destinati all’export negli Stati Uniti e in Medio Oriente.

Una normativa confusa

Uno dei punti critici evidenziati dal Rapporto Cave 2021 è la normativa di riferimento del settore. A livello nazionale, l’ultima legge quadro che si può citare è il Regio Decreto di Vittorio Emanuele III del 1927. “Da allora – scrive Legambiente - non vi è più stato un intervento normativo che determinasse criteri unici per tutto il Paese, mancano persino un monitoraggio nazionale della situazione o indirizzi comuni per la gestione e il recupero”. Tutto è stato demandato alle amministrazioni regionali, con ovvie disomogeneità, tanto che alcune regioni non hanno neanche un “piano cave” vigente.
Per tutelare un minimo il territorio, ci si può tuttavia appellare alla
Direttiva europea 85/337, che stabilisce che l’apertura di nuove cave debba essere condizionata alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale. In Italia però l’obbligo vale solo per cave con superficie maggiore di 20 ettari, per le altre la valutazione viene prontamente aggirata.
Alla normativa fumosa si aggiunge poi la questione dei
canoni, cioè le concessioni che le aziende devono pagare alle Regioni per le attività di escavazione ed estrazione. Quelli in vigore in Italia sono, a detta di Legambiente, addirittura irrisori se paragonati ad altri Paesi europei. Ad esempio, se fosse stato applicato un canone minimo nazionale pari al 20% dei prezzi di vendita delle materie estratte, come avviene nel Regno Unito, si stima che negli ultimi dieci anni nelle casse pubbliche sarebbero entrati circa 4 miliardi di euro. Un provvedimento che sarebbe necessario non solo per il bene dei conti pubblici ma anche perché, come osserva Legambiente, “la strada dell’economia circolare passa per una revisione della fiscalità e in tutti i Paesi europei l’aumento dei canoni per le attività estrattive e per il conferimento a discarica degli inerti è stato il volano per la riorganizzazione e modernizzazione del settore verso il riciclo”.

L’edilizia circolare è l’alternativa alle cave

Oltre all’istituzione di una canone minimo nazionale per le attività estrattive, Legambiente indica nel Rapporto Cave 2021 altri due punti fondamentali su cui concentrarsi nel prossimo futuro. Prima di tutto, rafforzare la tutela del territorio, per garantire una migliore gestione delle concessioni e il recupero progressivo dei siti dismessi. Poi, soprattutto, accelerare la transizione circolare del settore delle costruzioni, recuperando tutti gli inerti e i rifiuti da demolizione e riutilizzandoli, così da ridurre drasticamente il prelievo da cava.
Oggi, come si legge nel Rapporto, “larga parte dei rifiuti da demolizione e ricostruzione finisce in discarica e siamo ben lontani dall’obiettivo del 70% di recupero fissato al 2020 dall’UE. Eppure, gli studi evidenziano come la filiera del riciclo in edilizia garantisca il 30% di occupati in più a parità di produzione”.
Non è più accettabile, insomma, che si continui a devastare il territorio per estrarre materiali che potrebbero benissimo essere sostituiti da quelli provenienti dal recupero e dal riciclo. Tanto più che, come dimostrano le buone pratiche raccolte da Legambiente, c’è chi già ha intrapreso la strada della circolarità anche nel settore dell’edilizia e delle costruzioni. Ad esempio, si legge ancora nel report, “nei cantieri di demolizione realizzati dall’azienda dell’edilizia pubblica di Ferrara e nell’abbattimento dell’ospedale di Prato si è riusciti a recuperare il 99% di materiali dalle demolizioni selettive di edifici, da riutilizzare creando nuove imprese nei territori”. Si possono poi riutilizzare materiali di scarto provenienti dalla siderurgia e dall'agricoltura per realizzare sottofondi stradali e mattoni, si possono rifare chilometri di strade e piste ciclabili con materiali riciclati al 100%. Le alternative alla cava sono moltissime e le tecnologie sono già mature e disponibili.
“Non esistono più scuse - commenta
Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente - Abbiamo oggi la possibilità di passare da un modello lineare, di grande impatto, a uno circolare dove l’obiettivo è puntare su recupero, riciclo, riqualificazione urbana e territoriale. È una trasformazione sicuramente nell’interesse generale ma anche del settore, perché in questa prospettiva si aprono opportunità di innovazione di impresa e di creazione di nuovi posti di lavoro. Al Governo Draghi chiediamo di cogliere l’occasione dei cantieri del Recovery Plan per realizzare questo cambiamento”.

Nell'immagine: cave di marmo a Carrara (ph Pixabay)