In Francia è stata approvata la prima legge al mondo che vieta la distruzione di prodotti resi o invenduti. Tutto è nato dall’ondata di indignazione scatenata da un reportage all’interno di un magazzino di Amazon. Ma il colosso dell’e-commerce non è l’unico responsabile di questa pratica insostenibile.
Il reportage nei magazzini di Amazon
Una macchina per fare i popcorn, nuova e ancora nella confezione; uno scatolone pieno di libri intonsi e un altro di pacchi di pannolini da bambini; decine di set di Lego, quelli per costruire castelli e astronavi, con tanto di cellophane; televisori a schermo piatto da centinaia di euro perfettamente imballati. Tutto fresco di spedizione, incartato e mai usato. Tutto rimandato al mittente da clienti insoddisfatti. Tutto pronto per finire nella spazzatura.
Sono le immagini trasmesse nel gennaio 2019 dall’emittente francese M6, che ha inviato due reporter sotto copertura in un magazzino di Amazon nelle campagne della Loira. Il bendidio che gli addetti del colosso dell’e-commerce, sorpresi dalla videocamera nascosta, stavano buttando nell’immondizia è solo una piccola parte dei 300mila prodotti che il deposito (tra l’altro fra i più piccoli gestiti da Amazon in Francia) destina ogni anno alla discarica. Uno schiaffo alla miseria e una sciagura per l’ambiente.
Lo scandalo sollevato dal documentario ha tuttavia generato una reazione costruttiva, che ha portato il governo francese ad adottare, a un anno di distanza, la prima legge al mondo che vieta la distruzione di prodotti resi o invenduti.
Una legge per salvare i prodotti resi o invenduti
Il problema ovviamente non riguarda solo Amazon. Nella sola Francia, annualmente, vengono buttati o distrutti beni invenduti per un valore di oltre 650 milioni di euro. Se l’e-commerce ha dato una spinta a questa tendenza, per alcuni comparti produttivi, come il lusso e la moda, togliere di mezzo i residui di magazzino per preservare l’esclusività del brand era già un’abitudine. Brune Poirson, segretaria di Stato presso il Ministero della transizione ecologica, utilizza l’unità di misura più familiare ai francesi per dare un’idea di quanti vestiti e scarpe nuovi finiscano nel cassonetto nel suo Paese: l’equivalente del peso di due Torri Eiffel, ogni anno.
La legge anti-spreco, approvata dal Senato la scorsa estate e adottata nel gennaio 2020, va dunque a completare le normative che in Francia erano già in vigore per impedire ai supermercati di buttare il cibo invenduto (ora donato in beneficenza). Le nuove regole obbligheranno produttori, importatori e distributori – compresi quelli online – a riutilizzare i prodotti non-alimentari resi o invenduti, purché non vi siano rischi per la salute o la sicurezza. Alla lista del “vietato distruggere” si aggiungono così vestiti, scarpe, tessili, cosmetici, elettronica, prodotti in plastica, giocattoli e altro. Le aziende dovranno trovare il modo di rimettere in circolo i beni senza interferire con il mercato del loro brand, rivendendoli magari a prezzi ribassati ai dipendenti, donandoli in beneficenza o riciclandone i materiali.
Intanto l’esempio francese comincia a fare proseliti: in Italia, la Regione Lazio ha approvato un emendamento per contrastare la distruzione di resi e invenduti, stipulando una serie di accordi fra distributori ed enti pubblici o no profit.
Restitutori seriali
Sebbene la Francia sia stata la prima a portare la questione sul tavolo del legislatore, la sorte dei fondi di magazzino e dei resi è diventata già da tempo un problema per le stesse industrie, che prima dell’impatto ambientale guardano al costo sempre più pesante. Si stima che la percentuale delle merci rispedite al mittente abbia subito un’impennata del 95% negli ultimi cinque anni, proprio in corrispondenza del boom di Amazon. La società americana Happy Returns, a cui si rivolgono i clienti insoddisfatti per mandare indietro gli acquisti, ha calcolato che negli Stati Uniti il valore dei resi passerà dai 350 miliardi di dollari del 2017 a 550 nel 2020. In testa alla classifica dei beni più rifiutati ci sono – e non sorprende - vestiti, scarpe e altri accessori di moda, restituiti oltre la metà delle volte.
Globalmente, e ogni anno, più del 15% dei prodotti in commercio viene restituita dai clienti o semplicemente rimane invenduta, si legge sul sito della società Optoro. E la cattiva gestione dei beni rifiutati genera, solo negli USA, 15 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio all’anno. Il problema è che, spesso, per i distributori risulta molto più conveniente liberarsi dei pacchi tornati indietro, piuttosto che tenerli per mesi o anni in deposito o farsi carico della riconsegna al produttore. Il fatto che gli costi di meno, non significa però che la pratica non generi inefficienze per l’industria stessa. Così, per contenere impatti ambientali e sprechi economici, alcune società di consulenza, come appunto l’americana Optoro o la britannica Parker Lane, hanno cominciato a offrire i loro servizi alle aziende per gestire e riciclare nel modo più efficiente gli stock di resi e giacenze.
La responsabilità degli sprechi, tuttavia, non va addossata solo a chi produce e vende. Il gruppo di ricerca Barclayard ha evidenziato un problema di “restituitori seriali”: gente che deliberatamente compra più prodotti di quelli di cui ha bisogno (lo ammette il 30% degli acquirenti intervistati) oppure che ordina più versioni dello stesso capo, per scegliere con comodo a casa (19%). La pratica viene ammessa candidamente proprio perché, in genere, i clienti dell’e-commerce non sanno e non si chiedono che fine faranno le scarpe o il cappotto che spediscono indietro. Forse, allora, una legge che obblighi produttori e distributori a farsi carico del destino dei resi farà in modo che siano loro stessi a responsabilizzare i propri clienti, rendendo più complicata la restituzione.