Aerei, vestiti, cibo, energia. Le cronache degli ultimi mesi hanno dato ampio spazio a casi di greenwashing in diversi settori e parti del mondo. Con il termine greenwashing ci si riferisce comunemente a tutte quelle pratiche, tipicamente messe in atto da aziende, per far apparire i propri prodotti più ambientalmente sostenibili di quanto non siano in realtà. Un fenomeno su cui anche i governi iniziano a prendere provvedimenti – solo il tempo ci dirà se efficaci.

Lululemon, essere o non essere Planet?

Alle Olimpiadi di Parigi, il team canadese ha sfoggiato una divisa rosso fiammante. Il colore nazionale, ma anche il colore di Lululemon, l’azienda che ha prodotto giacche e tute per gli atleti. Proprio Lululemon è da mesi al centro della mobilitazione dell’ecologismo canadese, che accusa il gruppo di presentarsi come attento all’ambiente senza, dicono gli attivisti, averne i requisiti. Le critiche nascono attorno allo slogan Be Planet, che il brand canadese usa dal 2020. “I nostri prodotti e le nostre azioni evitano di danneggiare l’ambiente e aiutano a rigenerare il pianeta”, si legge sul sito dell’azienda. “Lululemon parla di Be Planet, ma i suoi stessi report mostrano come le sue emissioni climalteranti siano cresciute dell’83% tra il 2019 e il 2021”, scrive l’organizzazione non governativa Stand.Earth. “A differenza di altri brand, Lululemon ha fatto ben poco per eliminare il carbone e gli altri combustibili fossili dalla sua catena di approvvigionamento”. Stand.Earth è la realtà più impegnata sul dossier Lululemon. Oltre ad aver organizzato proteste di fronte ai negozi del brand, ha presentato esposti in Canada e Francia. Interrogata dalla testata specializzata Climate Home News, Lululemon ha spiegato che “Be Planet non è una campagna di marketing” bensì “un pilastro della strategia di impatto dell'azienda”, e che “l'impresa è certa che le dichiarazioni fatte al pubblico riflettano accuratamente i suoi obiettivi e impegni”.

La causa persa contro United Airlines

Mentre il caso Lulumon inizia il suo percorso giudiziario, un’altra vicenda si conclude - almeno per quanto riguarda le aule di tribunale. La corte distrettuale del Maryland, negli Stati Uniti d’America, ha archiviato una causa intentata contro la compagnia aerea United Airlines. I cittadini che avevano presentato l’esposto sostenevano che l’azienda promuovesse un’immagine verde del proprio prodotto, invitando così i consumatori a preferirlo ai competitor anche se più economici. Immagine che, prosegue l’accusa, non trova fondamento nei fatti. La corte distrettuale ha rigettato la causa perché una decisione di senso opposto, spiegano i giudici, violerebbe una legge del 1978, l’Airline Deregulation Act. Secondo questa norma, e secondo altri precedenti presenti in letteratura giuridica, solo il governo federale avrebbe il potere di limitare le operazioni di marketing delle compagnie aree. Una decisione che renderà più difficile per l’ecologismo statunitense intentare cause simili in futuro.

“Come se Shell vendesse il proprio petrolio come biologico”

Dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, un’altra accusa di greenwashing ha fatto parlare di sé. Sotto la lente degli attivisti c’è Fonterra, gigante cooperativo del settore lattiero-caseario. Il caso nasce attorno ad alcuni slideshow, pensati per clienti ed investitori, in cui Fonterra metta in mostra l’uso di pratiche di produzione attinenti alla cosiddetta agricoltura rigenerativa un’etichetta ampia, che si riferisce a tutti quei modi in cui in agricoltura si preservano le funzioni vitali del suolo, compresi i suoi strati superficiali. Definizione che per gli attivisti non si adatterebbe al lavoro di Fonterra. "Le affermazioni disoneste di Fonterra sono incompatibili con il fatto che si parli del maggiore inquinatore climatico e di risorse idriche del Paese”, scrive in una nota Sinéad Deighton O’Flynn, portavoce di Greenpeace New Zealand. “Fonterra afferma che le sue pratiche inquinanti sono rigenerative solo perché le sue mucche sono allevate al pascolo: è come se Shell sostenesse che il suo petrolio è biologico perché esce dalla terra”, conclude l’attivista.

L’Europa prova a metterci una pezza

Di greenwashing si parla da anni, ma i tentativi legislativi di limitare il fenomeno sono recenti. La Financial Conduct Authority, l’organo di regolamentazione dei mercati britannico, ha rilasciato negli scorsi mesi le sue nuove linee guide contro il greenwashing. Per l’ente pubblico le dichiarazioni di sostenibilità delle aziende devono essere corrette, verificabili, chiare e complete, includendo l’intero ciclo di vita dei prodotti in questione. Non una norma risolutiva, ma un primo segno di sensibilità rispetto al problema.

Dall’altro lato della Manica, a gennaio di quest’anno il Parlamento europeo ha approvato una direttiva che, nelle intenzioni, impedirà pubblicità ambientalmente ingannevoli. Il testo licenziato dal massimo organo elettivo europeo proibisce l’uso di claim generici - ad esempio, “rispettoso dell’ambiente” - e limita gli scenari in cui le aziende potranno fregiarsi di determinati obiettivi. Non si potrà ad esempio vantare le virtù ambientali del proprio prodotto se ottenute tramite offset, cioè compensazione del danno procurato (tipicamente la piantumazione come rimedio all’emissioni di gas climalteranti). La medesima direttiva tenta di porre un freno anche all’obscolescenza programmata, l’abitudine cioè di realizzare prodotti dal ciclo di vita artificialmente basso, allo scopo di aumentare la frequenza di acquisto.

E in Italia Greenpeace assegna gli Oscar del Greenwashing

Sarà sufficiente? Le direttive devono prima passare dal Consiglio europeo e poi essere recepite da tutti i parlamenti nazionali. Perché entri realmente in vigore servirà quindi del tempo, e solo tra un paio d’anni potremo valutarne l’efficacia. “Intanto bene che si stia andando nella direzione corretta”m spiega a Materia Rinnovabile Federico Spadini, campaigner clima di Greenpeace Italia. “Il tema del greenwashing è finalmente nel dibattito. In Francia si è varata una legge, pur timida, per limitarlo. Poche settimane fa la città dell’Aja, nei Paesi Bassi, ha vietato tutte le pubblicità relative a beni climalteranti: fossili, aerei, crociere. Ma la strada per fermare il greenwashing è ancora lunga”.
Greenpeace Italia, con l’ausilio dell’Osservatorio di Pavia, ha realizzato quest’anno per la prima volta gli Oscar del Greenwashing, un evento in cui sono state individuate le realtà del panorama mediatico, politico e imprenditoriale che, secondo la Ong, più sono ricorse a pratiche utili a tinteggiare di verde la propria immagine pubblica. “La testata premiata in questa poco lusinghiera cerimonia è il Sole 24Ore, il politico è il ministro Matteo Salvini. Lato aziendale, invece, l’oscar del greenwashing 2024 va ad ENI”.

Immagine: Bogomil Mihaylov (Unsplash)