Basta osservare con attenzione una manciata di sabbia e, armati di lente, si possono ammirare dei granelli luccicanti e spigolosi. Quella è sabbia di quarzo, ovvero silicio allo stato ossidato. Contando in peso quasi il 30% della crosta terrestre, il silicio è il secondo elemento più abbondante sulla Terra (dopo l'ossigeno) e si può trovare all'interno di rocce magmatiche, metamorfiche e sedimentarie.
Tuttavia per produrre semiconduttori, essenziali per l’industria solare e non solo, il quarzo deve essere trasformato in silicio metallico tramite un processo che richiede un’elevata quantità di energia. “Per scaldare il quarzo le temperature arrivano fino a mille gradi – ci spiega Alberto Zanelli, ricercatore del CNR specializzato in elettrochimica – e con la presenza di carbonio si ottiene silicio metallico puro al 98.99% utilizzato principalmente per formare leghe metalliche e silicone. Essendo una trasformazione estremamente energivora, l’Europa ha sempre preferito delegare questo comparto a Paesi esterni, dove tra l’altro gli standard ambientali e di sicurezza non sono così scrupolosi”.
Il silicio metallico puro al 98% però non è ancora adatto per impieghi elettronici, deve essere ulteriormente purificato. “Il metallo viene attaccato con acido cloridrico – continua Alberto Zanelli – e trasformato in tetracloruro di silicio, che viene distillato per raggiungere una purezza elevatissima (99.9999%). Infine viene nuovamente ridotto a silicio metallico, una versione che rientra nella lista ufficiale delle materie prime critiche perché non è riciclabile e al momento non ha sostituti”.
Solamente con questo grado di purezza si raggiunge quel silicio policristallino o polisilicio che viene usato per realizzare pannelli fotovoltaici. L'elettricità rappresenta circa il 40% dei costi operativi di una fabbrica, ecco perché produrlo diventa economicamente conveniente solo dove c’è una politica energetica favorevole e dove gli standard di sicurezza degli impianti sono più bassi.
L’oligopolio cinese sul polisilicio
Non sorprenderà molto, ma per mappare la produzione mondiale di polisilicio bisogna volgere lo sguardo verso l’estremo oriente, verso la Cina. Fino al 2005 erano sette le compagnie a dominare il mercato: tre giapponesi, tre statunitensi (con MEMC Electronic Materials in parte italiana) e la tedesca Wacker Chemie. Quando la domanda di polisilicio dell'industria fotovoltaica cominciò ad aumentare, iniziarono anche le dispute commerciali tra il mercato occidentale e quello cinese, altamente competitivo per i bassi costi energetici. Con l'introduzione di dazi sulle importazioni di polisilicio di Pechino del 2013, è iniziata l'espansione cinese nel settore. “I produttori cinesi hanno acquisito molta esperienza nella produzione di polisilicio – spiega a Materia Rinnovabile Johannes Bernreuter, fondatore del centro di ricerca Bernreuter Research - hanno compiuto grandi progressi tecnologici, si sono trasferiti in località con elettricità a basso costo (Xinjiang, Mongolia Interna) e hanno raggiunto presto economie di scala. Come importatori rilevanti, sono rimaste solo la OCI in Malesia e Wacker in Germania”. Con la crescita vertiginosa di aziende come Xinte Energy, Daqo New Energy, Tongwei e East Hope New Energy, la Cina oggi domina il mercato rappresentando circa l'80% della produzione globale di polisilicio.
Da inizio 2022 il prezzo del silicio policristallino ha subito una brusca impennata causata dall’aumento della domanda nel periodo post pandemico. “L'offerta è in ritardo perché la nuova capacità di produzione cinese si deve ancora adeguare alla crescente domanda fotovoltaica – dice Bernreuter -. Sia la Cina che i Paesi occidentali si stanno concentrando su obiettivi a emissioni zero e per farlo servono pannelli fotovoltaici”. Con costi energetici così elevati in Europa secondo Bernreuter è impensabile come le aziende europee possano competere.
Gli Uiguri e il lavoro forzato negli impianti cinesi
Oggi la regione dello Xinjiang, dove bruciare carbone rende l’energia molto più economica, ospita quasi il 50% della fornitura mondiale di polisilicio. Sono anni che Ong, inchieste giornalistiche e testimonianze dirette accusano il governo cinese di gravi violazioni dei diritti umani nei confronti della minoranza uigura che vive nella Cina occidentale. Le organizzazioni per i diritti umani sostengono che almeno un milione di persone siano state imprigionate nei campi, torturate e costrette ai lavori forzati allo scopo di combattere l’estremismo religioso. Questi dati sono confermati anche dall’ultimo rapporto dell’Onu che documenta quanto questi “campi di rieducazione” siano diffusi nella regione.
Secondo un report dell’azienda di consulenza Horizon Advisory, la maggior parte dei principali produttori cinesi di polisilicio e di energia solare sembrano partecipare attivamente al reclutamento forzato di Uiguri come manodopera. Nel 2009 la Xinte Energy è stata la prima ad avviare una produzione di polisilicio nello Xinjiang e nel 2018 il sito web del governo regionale comunica l’inserimento di 300 lavoratori dello Hotan da parte dell’azienda TBEA Co., società madre della fabbrica di polisilicio Xinte Energy, in quanto programma di “aiuto” verso le zone rurali più povere. Secondo alcuni file riservati alla polizia cinese trovati dal ricercatore tedesco Adrian Zenz, il proprietario di un impianto del colosso GCL-Poly Energy Holdings ha dichiarato di aver inserito 121 lavoratori provenienti dalle zone più povere dello Xinjiang meridionale. Delle foto pubblicate dal governo locale nel giugno 2017 si vedono lavoratori in fila con divise blu, pronti per essere mandati a lavorare in diverse aziende, tra le quali la East Hope Group Co., una delle “Big Six” dell’oligopolio cinese.
La maggior parte dei clienti internazionali che assemblano e installano pannelli fotovoltaici potrebbero comprare polisilicio proveniente dallo Xinjiang senza neanche accorgersene. “Tracciare l'intera catena di approvvigionamento è davvero complesso, soprattutto quando i produttori cinesi si rifiutano di rivelare da dove acquistano silicio metallurgico o da dove estraggono quarzo – commenta Bernreuter - il governo cinese nega categoricamente qualsiasi violazione dei diritti umani. Il rischio che l'intera filiera dell’industria solare sia dominata dal regime dittatoriale cinese deve preoccupare”.
Nel dicembre dello scorso anno il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato lo Uyghur Force Labor Prevention Act, una legge federale che tenta di garantire più trasparenza nella filiera: in pratica si assicura che tutte le importazioni degli Stati Uniti (compresi cotone e pomodori) non abbiano alcun collegamento con pratiche di lavoro forzato. “Anche in Europa si stanno studiano provvedimenti simili, ma credo che avranno poco effetto sulla situazione degli Uiguri poiché sia Washington che i membri Ue rappresentano solo il 30% dell’installazione di impianti fotovoltaici a livello globale. Il silicio policristallino dello Xinjiang continuerà ad essere una fonte di moduli solari installati in Cina o altrove in Asia”.
In risposta alla pressione mediatica, il 16 maggio 175 compagnie dell’industria solare hanno firmato un impegno non vincolante proposto da un’associazione di categoria statunitense con l’obbiettivo di spostare le catene di approvvigionamento fuori dallo Xinjiang. Come riporta un’inchiesta di Bloomberg, alcuni giganti cinesi come Longi Green Energy Technology, JA Solar Technology e JinkoSolar Holding hanno firmato il documento, nonostante abbiano tutti contratti pluriennali per l'acquisto di polisilicio proveniente dalle aree più a rischio.
Immagine: Xinjiang, ph Michael Lee (Unsplash)