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Al 2060 l’estrazione di materiali raggiungerà l’astronomica cifra di 160 miliardi di tonnellate all’anno. Un numero difficile da ponderare e persino immaginare. Anzi no. Secondo alcuni calcoli amatoriali potrebbe essere circa il peso del Monte Everest, dalla base fino alla vetta, una piramide alta 8.848 metri. Un numero che incarna lo sforzo titanico dell’umanità di costruire infrastrutture, di nutrirsi, di contornarsi di beni fondamentali o superflui. La materia è alla base della nostra economia, anche quando è intangibile come nel digitale, con il suo mondo di server, cavi e satelliti. Il nostro uso della materia rimane prettamente estrattivista: la ricaviamo grezza dalla terra, sia essa legno, sabbia o disprosio.
Solo il 7,2% della nostra economia è circolare, ovvero sostenuta da riuso e riciclo. Non siamo neanche all’inizio della transizione circolare, che questa rivista da oltre dieci anni auspica. E questo ritardo ha impatti tremendi su clima e biodiversità, come ricorda l’ultimo Global Resource Outlook dell’ONU: l'estrazione e la lavorazione delle risorse materiali (combustibili fossili, minerali, minerali non metallici e biomassa) sono responsabili di oltre il 55% delle emissioni di gas serra (GHG) e del 40% del particolato.
Inoltre, le crescenti frizioni iper-protezionistiche portate avanti dagli ex-neoliberisti Stati Uniti, unite allo scricchiolare dei rapporti tra molte aree del mondo (Russia per gas e uranio, Cina per le terre rare, Congo per minerali e cobalto e via dicendo) sono un segnale di grave preoccupazione geopolitica e geoeconomica: da un lato spingono per una nuova corsa estrattivista, anche nel cuore di un’Europa sempre più vulnerabile ai mercati delle materie prime, dall’altro creano nuove mire espansionistiche. Nel mentre social media, influencer e brand celebrano il consumo sfrenato, magari con una mano di verde tanto per includere nel market anche chi è più restio. Non giovano la supremazia estrattivista cinese, l’anarco-capitalismo di Milei e Trump, entrambi sostenitori dell’apertura di nuove frontiere estrattive, o l’antieuropeismo italiano e ungherese.
È tempo di restituire forza ad attori internazionali, purché fortemente riformati: dalle Nazioni Unite alla World Trade Organization, dalla società civile internazionale alle strutture sovranazionali per una nuova governance delle materie prime (e materie prime seconde), bene di tutti, sfruttate da pochi, catalizzatrici di scontri e guerre commerciali.
In questo numero mostriamo complicazioni e opportunità del mercato della materia: dai critical raw material alla sabbia, dal rame alle plastiche riciclate, dai biomateriali alle nuove filiere del riuso del legno da arredamento, dalla carta al tessile. Due dei grandi driver di consumo di materia sono lo sviluppo dell'ambiente costruito (continua a crescere il consumo di cemento e acciaio) e la transizione energetica globale, che genera un’impennata nella domanda di minerali critici come il rame, il cobalto, lo zinco e il litio, come spiega Melissa Barbanell del World Resource Institute nell’intervista di apertura. A ciò va aggiunta l’esplosione dell’IA e della robotica, altro inquietante driver di crescita per la domanda di materiali. La sfida è quella chiave dell’economia circolare, che però, come ricorda Cillian Lohan del Comitato economico e sociale europeo (CESE), ancora non decolla. Nemmeno in Europa, dove i due European Circular Economy Action Plan non hanno ancora iniziato a sortire gli effetti attesi.
Lo sforzo da mettere in atto è enorme. Per questo servono visioni e idee nuove, innovazioni, sinergie industriali, collaborazioni transnazionali. Materia Rinnovabile porta il suo piccolo contributo. Ogni azione d’altronde nasce dalla giusta informazione.
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In copertina: Lithium #1, foto di Davide Monteleone parte del progetto CriticalMinerals – Geography of Energy