Una bambina gioca in mezzo a cumuli di imballaggi e rifiuti plastici provenienti da ogni parte del mondo; va a “pescare” pesci morti in un torrente di liquami, mentre le pecore brucano il pluriball dal prato; accende la brace per la cena con pezzi di nylon e va a dormire nella sua stanza, tappezzata di confezioni di caramelle e figurine americane raccolte dalla discarica. Siamo nello Shandong, provincia nord-orientale della Cina. La casa di Yi-Jie è una piccola fabbrica a conduzione familiare per il riciclo della plastica, in un distretto che, come spesso avviene nella Repubblica Popolare per svariati settori, è interamente dedicato a questa attività. In pratica, un inferno di plastica.
Yi-Jie è la protagonista del documentario “Plastic China” del regista e giornalista ambientale Wang Jiuliang. Uscito nell’autunno 2016, dopo tre anni di lavoro e ricerche, il film ha girato il mondo raccogliendo premi e riconoscimenti internazionali (anche in Italia, primo premio al Festival CinemAmbiente 2017). Soprattutto ha ottenuto una grande eco in patria, con corollario di indignazione popolare e conseguente censura governativa, come ha dichiarato lo stesso Wang. Il lavoro denuncia infatti una pratica divenuta negli anni una vera e propria piaga, ambientale ma anche sociale, per la Repubblica Popolare: l’importazione dall’estero di rifiuti da riciclare, per soddisfare un’industria sempre più affamata di materie prime. Si parla, solo per il 2016, di 50 milioni di tonnellate di materie di recupero importate, includendo carta, ferro, acciaio e altri metalli; di queste, 7,3 milioni di tonnellate sono plastica, quasi la metà proveniente dall’Europa, il resto prevalentemente da Stati Uniti, Corea e Giappone. “Nel complesso, fino a oggi, il suolo cinese ha accolto circa il 56% della plastica buttata dal resto del mondo”, precisa Liu Hua, attivista cinese di Greenpeace East Asia.
Insomma, la Cina, dopo essersi ritagliata il ruolo di fabbrica del pianeta, si è trasformata, neanche troppo lentamente, nella sua discarica. Ora, però, non vuole più questa parte. Le bambine che corrono su colline di spazzatura portata dall’estero mal si accordano con il New Deal verde brillante del presidente Xi Jinping. E del resto, lo confermano anche da Greenpeace, il problema dell’inquinamento da plastica era da tempo nell’agenda delle priorità politiche di Pechino. “Il Paese – spiega Liu Hua – deve già vedersela con la quantità crescente di rifiuti prodotti in casa, di cui oltre 3,5 milioni di tonnellate vengono riversati ogni anno in mare. Un numero che non farà che aumentare, visto che il consumo pro capite di plastica in Cina è salito alle stelle negli ultimi anni, a causa della crescita dei consumi della classe media e della diffusione dei servizi di consegna a domicilio di cibo e bevande.”
La Spada della Nazione e i nuovi standard
Ci sono quindi voluti solo pochi mesi perché fosse approvata una normativa che limita fortemente, stabilendo standard più severi, l’import di materiali di scarto dall’estero. Le restrizioni comunicate alla World Trade Organization riguardano 24 tipologie di rifiuti solidi fra i più inquinanti, come la plastica per uso domestico, la carta indifferenziata o mista, gli scarti tessili e scorie di varia natura. A queste – stando alle ultime comunicazioni di fine aprile da parte del ministero dell’Ambiente di Pechino – si aggiungeranno nuove limitazioni con cadenza annuale (dicembre 2018 e dicembre 2019), in un progressivo piano di “ripulitura” dei flussi in entrata su suolo cinese. Il divieto che interessa i rifiuti prodotti da uso quotidiano è già entrato in vigore dal 1° gennaio 2018, mentre dal 1° marzo sono diventati effettivi i nuovi standard di impurità per gli scarti industriali.“Il problema maggiore, infatti – continua Liu – soprattutto per quanto riguarda la plastica, è che i materiali importati erano spesso di bassa qualità e scarso valore”: altamente “impuri”, insomma, perciò più inquinanti.
Altre volte, invece, sono le caratteristiche intrinseche del materiale a costituire il problema, come per il pvc che rilascia diossina nell’ambiente. E poi ci sono i rifiuti compositi, i poliaccoppiati con carta plastica e alluminio ad esempio, difficilissimi da riciclare, soprattutto se si pensa alle scarse tecnologie di manifatture a conduzione familiare come quella ritratta dal film di Wang Jiuliang. Va detto che, per decenni, il rispetto degli standard qualitativi internazionali (quelli già vigenti) non è stato per il mercato cinese la prima preoccupazione nell’importare rifiuti dall’estero, così come per gli stessi Paesi esportatori. La rapida crescita dell’industria richiedeva materie prime e non c’era tempo di andare troppo per il sottile. Con l’aumento della produzione, la Cina si è però trovata da un lato ad avere una maggiore riserva interna di materiali da riciclare, e dall’altro a dover gestire una crescente pressione dell’opinione pubblica per il problema dell’inquinamento industriale. Due fattori che, già all’inizio del 2017, hanno portato Pechino a un primo giro di vite nei controlli sui container di rifiuti provenienti dall’estero, ispezionati accuratamente (e platealmente) con tecnologie a raggi x per garantire la conformità agli standard qualitativi.
La Spada della Nazione (National Sword), come è stata battezzata con la consueta roboante retorica la campagna di controlli, si è dunque abbattuta sugli export internazionali, evolvendosi pochi mesi dopo nelle ben più severe restrizioni comunicate al WTO. La Cina, dunque, ha pensato a se stessa. E lo ha fatto come sempre senza stare tanto a tergiversare, quasi da un giorno all’altro. Spiazzando la comunità internazionale e il sistema globale di smaltimento e riciclo, che sulla possibilità di spedire la propria spazzatura in Estremo Oriente ha sempre fatto (forse troppo) affidamento. “Le nuove soglie di impurità stabilite sono così basse che costituiscono, di fatto, un blocco per molte importazioni”, ha dichiarato negli scorsi mesi Arnaud Brunet, direttore generale del Bureau of International Recycling, la federazione internazionale delle industrie del riciclo con base a Bruxelles. “La Cina – spiega Brunet, interpellato da Materia Rinnovabile a febbraio – voleva inizialmente fissare le soglie allo 0,3%, poi ha acconsentito a portarle allo 0,5% per quasi tutti i materiali”. Il BIR aveva anche chiesto un periodo di transizione di cinque anni per consentire un adeguamento graduale del sistema internazionale, “ma la richiesta – dichiarano – non è stata neanche presa in considerazione”.
Prime conseguenze
Ora cosa accadrà? La prima, scontata conseguenza è la diminuzione delle importazioni (o esportazioni, a seconda del punto di vista) di materiali di scarto. In dicembre, Brunet si sbilanciava dichiarando un calo atteso dell’80% nell’export di rifiuti plastici verso la Repubblica Popolare. Quella che già sembrava una previsione catastrofica, a giudicare dai dati rilasciati da Pechino in aprile, pare ora addirittura ottimistica. Se nel primo trimestre del 2018 un timido, e severamente controllato, flusso di scarti plastici ancora varcava i confini cinesi (circa 10.000 tonnellate, secondo i dati rilasciati dal ministero dell’Ambiente), dopo l’entrata in vigore dei nuovi standard a marzo il governo ha annunciato trionfante che l’import di plastica è stato azzerato.
Gli effetti ricadranno innanzitutto sull’industria del riciclo in Cina. “È probabile – spiega Liu Hua – che l’intero settore vada incontro a un aumento dei prezzi dei rifiuti e allo stesso tempo si trovi ad affrontare una carenza di materia prima. Saranno le piccole fabbriche a conduzione familiare a patire maggiormente lo stress di questo cambiamento.” Stesso stress che subiranno le piccole e medie imprese (e non solo loro) di tutto il mondo se, come teme Brunet, “non si troverà in fretta una soluzione”.
Rotte alternative
Per alcuni la soluzione è nella ricerca di mercati alternativi. Le rotte della plastica stanno già cambiando, dirigendosi verso il Sudest Asiatico, dove del resto comincia a essere rilocalizzata la stessa industria manifatturiera cinese. Recenti stime del BIR, pubblicate in gennaio dalla Thomson Reuters Foundation, sembrano confermare questa tendenza. Le importazioni annuali di rifiuti plastici in Malesia, per esempio, dalle 288.000 tonnellate del 2016 sono schizzate a 450-500.000 tonnellate nel 2017. Nello stesso anno, in Vietnam le importazioni sono cresciute del 62%, in Indonesia del 65% e in Thailandia addirittura del 117%. “Effettivamente – conferma Brunet – ci si aspetta che questi Paesi assorbano almeno in parte i volumi di materiali di scarto prima destinati alla Cina, ma in ogni caso sono ben lontani dalla sua capacità.” Resta poi da vedere se siano sufficientemente equipaggiati per controllare e gestire il flusso di rifiuti plastici (anche illegali) che presumibilmente potrebbe arrivargli addosso, e c’è già chi teme problemi analoghi, se non peggiori di quelli sperimentati dai cinesi.
“In ogni caso – commenta Liu Hua – spostare il problema non lo risolverà. Trasferire i rifiuti in un’altra parte del mondo non può nascondere il fatto che, globalmente, stiamo producendo molta più plastica di quanta il pianeta possa gestirne. Il blocco posto dalla Cina potrebbe allora essere un buon punto da cui partire per riorganizzare il nostro modello di consumo verso un minor spreco di risorse.”
Accelerare la circolarità
Ripensare l’intero sistema di produzione e consumo in ottica sempre più circolare è per l’appunto ciò che si propone l’Europa. Almeno negli intenti, riaffermati anche nella recente “Strategia per la plastica nell’economia circolare”. Dove, volente o nolente, la Commissione ha dovuto rivolgere più di un pensiero alla decisione cinese.
Ammontano a quasi 26 milioni di tonnellate i rifiuti plastici prodotti ogni anno dall’Unione europea, e di questi meno del 30% viene oggi raccolto per il riciclo. Di questa porzione (circa 7,7 milioni di tonnellate), più o meno la metà viene solitamente inviata all’estero, soprattutto in Cina, dove, almeno fino ad oggi, finiva l’85% dell’export di scarti plastici europei (circa 3,3 milioni di tonnellate). Ora la situazione, per forza, dovrà cambiare, ma questo, scrivono con un certo ottimismo gli estensori del documento Ue, “potrebbe creare opportunità per il comparto europeo del riciclo”.
Il problema, e non di poco conto, è la scarsa domanda di plastica riciclata da parte delle industrie dell’Unione. “L’utilizzo in prodotti nuovi è basso – si legge nella direttiva – e spesso si limita ad applicazioni di poco valore o di nicchia. L’incertezza riguardo agli sbocchi di mercato e al profitto tiene lontani gli investimenti necessari per far crescere la capacità di riciclo dell’Europa e spingere l’innovazione”. Ora però, “il restringersi delle rotte per l’esportazione di rifiuti da riciclare rende ancora più urgente lo sviluppo di un mercato europeo per la plastica riciclata”. Le tappe serrate del Dragone, allora, potrebbero costringere anche il Vecchio Continente ad accelerare il passo.
Precious Plastic: il futuro del riciclo è open source?
La plastica è preziosa. Non è scontato affermarlo, visto che il valore attribuitole dal mercato (e che l’ha resa la materia usa-e-getta per eccellenza) non rispecchia né le sue straordinarie caratteristiche di resistenza, durevolezza e versatilità, né gli ormai palesemente insostenibili costi ambientali.
Per questo, il trentenne designer olandese Dave Hakkens ha battezzato “Precious Plastic” il suo ambizioso progetto per diffondere il riciclo fai da te del materiale più sprecato e abusato al mondo. La sua missione è mettere a disposizione di chiunque gli strumenti per recuperare la plastica di scarto e farne vari oggetti da rivendere (stoviglie, vasi, piastrelle, persino prese da arrampicata).
L’idea, sviluppata a partire dal 2013, ha la sua genesi nell’universo dei makers e si nutre di quella cultura della condivisione e dell’innovazione dal basso tipica degli artigiani digitali. Ma se le stampanti 3D, totem della comunità globale dei makers, richiedono materie prime apposite e spesso costose, i macchinari di Hakkens nascono invece, nell’ottica dell’economia circolare, per utilizzare quello che già c’è.
I piccoli laboratori di “Precious Plastic”, che racchiudono in meno di 30 metri quadrati tutto il sistema di recupero e lavorazione e sono installabili ovunque, hanno inoltre una funzione didattica e “narrativa”: condensano e mostrano l’intero processo di riciclo, di solito relegato in strutture non accessibili al pubblico, rendendolo così alla portata di tutti e in un certo senso normalizzandolo. Sostanzialmente le macchine sono di tre tipi: gli shredder, che triturano i rifiuti plastici; i dispositivi che riscaldano il materiale trasformandolo in una pasta malleabile; gli estrusori, per ottenere forme a sezione costante, come un tubo.
Tutti gli schemi e i tutorial per costruirle sono open source e disponibili sul sito. In più c’è un forum per chiedere aiuti e consigli e una piattaforma online per vendere prodotti o parti di macchine già costruite. Infine, una mappa interattiva localizza i membri della community in tutto il mondo: partiti dall’Olanda, ormai se ne contano centinaia, dalla Corea del Sud alla Nuova Zelanda, dal Messico al Kenya alla Thailandia. Insomma, una tecnologia pret-a-porter, a basso costo e potenzialmente replicabile da chiunque che, diffondendosi nei paesi in via di sviluppo, potrebbe diventare, nella visione di Hakkens, un importante tassello per il futuro del riciclo.
“Plastic China” di Wang Jiuliang, www.youtube.com/watch?v=v0Kif9cugQ0
Immagini: ©2016 Dave Hakkens