L’attuale crisi ecologica richiede un’azione tempestiva e trasversale: per limitare la perdita di biodiversità e scongiurare i più devastanti effetti dei cambiamenti climatici è necessario ampliare le aree protette del Pianeta e ripensare totalmente il nostro rapporto con la natura.
Per questo, tra gli obiettivi al centro della discussione alla COP15 sulla biodiversità, in corso a Montreal, c’è la protezione del 30% delle terre e dei mari entro il 2030.
Ambizioso, importante e sostenuto da molti Governi. Ma, come spesso si dice: siamo sicuri che sia tutto oro quello che luccica?
Per salvare il Pianeta dobbiamo proteggere il 50% della natura selvaggia
La necessità di proteggere aree sempre maggiori del Pianeta trova le sue fondamenta nella constatazione che la nostra esistenza dipende dalla natura e, in particolare, dalla sua capacità di garantirci i cosiddetti servizi ecosistemici. Tuttavia, il modello di sviluppo perseguito almeno negli ultimi due secoli ha velocemente degradato gran parte degli ecosistemi esistenti compromettendone la funzionalità e, di conseguenza, la loro capacità di supportare la sopravvivenza di una popolazione umana in continuo aumento.
A questo si aggiunge il ruolo che la natura riveste nel contrastare gli impatti dei cambiamenti climatici: foreste primarie, praterie e torbiere, ad esempio, sono in grado di immagazzinare più di 100ppm di carbonio aiutandoci a rimanere sotto la soglia delle 450ppm considerata il limite massimo da non superare se non vogliamo incorrere in effetti catastrofici. Al contrario, distruggere anche solo un quarto delle rimanenti aree selvagge significherebbe eliminare un pozzo di assorbimento di carbonio che, senza alcun costo per la società, ci sta aiutando a mantenere l’innalzamento della temperatura terrestre al di sotto dei 2°C.
Dunque, in un contesto storico in cui abbiamo già modificato o distrutto tre quarti delle terre emerse e il 66% dell’ambiente marino, la soluzione più efficace per evitare l’estinzione di milioni di specie, compresa la nostra, è proteggere non il 30% del Pianeta ma il 50% entro il 2030. La teoria, sostenuta, tra gli altri, dal movimento Nature Needs Half e dal progetto Half the Earth dell’ormai scomparso padre della moderna definizione di biodiversità, Edward O. Wilson, trova le sue radici nella teoria della biogeografia insulare secondo la quale la perdita di habitat è un fattore primario di estinzione, poiché ad ogni mutamento nelle sue dimensioni corrisponde una variazione nel numero di specie al suo interno. In particolare, quando il 90% di un habitat viene distrutto, il numero di specie al suo interno diminuisce di circa la metà. Una condizione che riguarda, ormai, la maggior parte delle aree mega diverse al mondo che, se dovessero perdere un ulteriore 10% di habitat naturale, vedrebbero scomparire tutte le specie che vi abitano. Al contrario, se proteggessimo metà della Terra, garantiremmo la sopravvivenza dell’85% delle specie esistenti.
Diritti umani e conservazione: un legame da non dimenticare
Tuttavia, uno dei grandi problemi della conservazione è che, troppo spesso, è un processo che viene calato dall’alto seguendo logiche, pratiche e interessi di stampo meramente occidentale. È il caso di numerose tra le più conosciute aree protette al mondo come lo Yellowstone National Park, negli Stati Uniti, o il Kruger National Park, in Sud Africa. Nonostante sia globalmente riconosciuta come un’area di protezione chiave per animali come il leone, l’elefante africano, il licaone e il rinoceronte nero, quello che oggi è il terzo più grande parco d’Africa ha alle spalle una lunga storia di imposizioni e sofferenza perpetrati dall’”uomo bianco” ai danni delle popolazioni indigene locali. La sua fondazione, nel 1918, ha comportato, infatti, la rimozione di migliaia di Tsonga, una popolazione bantu originaria dell’Africa meridionale che si è vista espropriare le terre e, con esse, gran parte della sua cultura e tradizione su ordine di Stevenson-Hamilton, scozzese di nascita e primo guardiano ufficiale del Parco. La sua politica nei confronti delle popolazioni indigene - che ha comportato, tra l’altro, anche il divieto totale della caccia all’interno del Parco - fu talmente rigida da valergli il soprannome di Skukuza che, in lingua, Tsonga, significa “colui che ha messo tutto sottosopra”.
Tale pratica, lontana dall’essere stata eliminata, rientra in quella che viene chiamata “Conservazione colonialista” o “fortezza” (dall’inglese Conservation fortress) che implica la totale rimozione della presenza umana dalle aree a forte interesse naturalistico così da garantirne l’accesso solo a turisti, ricercatori e, in taluni casi, ai cacciatori di trofei. Alla base c’è la convinzione, fortemente osteggiata anche alla COP15 da organizzazioni come Survival International e l’International Indigenous Forum on Biodiversity, che le popolazioni locali usino in modo irrazionale le risorse naturali e che la protezione della biodiversità sia più efficace quando le aree protette vengono preservate dal disturbo umano.
Al contrario, nel noto report del 2019, in cui si denunciava il precipizio verso cui l’uomo sta conducendo la biodiversità, l’IPBES sottolinea come nonostante le comunità indigene costituiscano solo il 6% della popolazione mondiale, queste abitino e proteggano ben l’85% delle aree designate alla conservazione. La loro identità, la loro cultura e le loro tradizioni, nonché la loro stessa lingua, sono inestricabilmente legate ai luoghi in cui vivono. Essi sono i guardiani di una natura a cui devono la loro sopravvivenza e con cui hanno un rapporto di simbiosi e rispetto che l’occidente, se mai l’ha provato, ha certamente dimenticato da molto tempo. Ecco perché, alla COP15, il rischio di perpetuare errori del passato è purtroppo ancora molto alto e l’attenzione per la stretta relazione tra protezione della natura e difesa dei diritti umani non andrebbe dimenticata.
Cosa fare, dunque?
Una soluzione efficace potrebbe risiedere nell’applicazione di una strategia di conservazione che prenda spunto proprio dalle conoscenze delle comunità indigene e affidi alle popolazioni locali la protezione di aree chiave seguendo un modello noto come community based conservation.
In aggiunta, sempre secondo l’IPBES, si potrebbero prevedere strumenti legislativi nazionali e internazionali che assegnino alle popolazioni il diritto di abitare quelle terre, di usarne in modo sostenibile le risorse, e condividerne gestione e benefici con i governi.
Un altro nodo da sciogliere, che ricorda tristemente il lungo e annoso dibattito sul principio di responsabilità comuni ma differenziate che tuttora risuona nelle aule in cui si svolge il negoziato sui cambiamenti climatici, è quello che vede le popolazioni indigene avanzare diritti sulle risorse naturali laddove i Paesi industrializzati hanno distrutto interi ecosistemi e portato all’estinzione decine di specie per centinaia di anni.
A questo si aggiunge il rischio che, impedendo alle popolazioni indigene di sfruttare le risorse naturali delle terre in cui hanno vissuto per millenni, e non risolvendo una situazione di palese disparità economica, il bracconaggio si faccia strada e, a rimetterci, sia ancora una volta proprio quella natura che, alla COP15, chiede aiuto a gran voce.
Immagine: Neil Cooper (Unsplash)