Due bandi da 40 milioni di euro per supportare con un contributo di 5000 euro tutti coloro che tra il 2020 e il 2023 hanno aperto negozi o attrezzato nuovi spazi per i prodotti sfusi. Questo aveva promesso il governo ormai più di tre anni fa, quando il Decreto Clima diventò legge. Ad oggi sono state pubblicate le graduatorie dei negozi ammessi al contributo e solo 600.000 euro sono stati effettivamente erogati.
Tutti i problemi del Bando Sfusi
I problemi però non riguardano solo le tempistiche di pagamento. “Il bando non è stato scritto bene – commenta Ottavia Belli, Ceo di SfusiItalia a Materia Rinnovabile – perché questi fondi sono dedicati solo a chi ha fatto spese dal 2020 in avanti, dimenticando tutti i pionieri dello sfuso che non hanno potuto partecipare al bando”.
Secondo Belli un altro problema riguarda il fatto che il bando parli di negozi esclusivamente sfusi, questo ha causato una bassissima partecipazione. “Teoricamente tutte le richieste di contributo avrebbero dovuto essere escluse perché non esiste un negozio che vende solo prodotti sfusi. Tendenzialmente in questi negozi specializzati i prodotti venduti alla spina rappresentano il 70/l’80% del totale. Poi c’è una seconda tipologia di negozi (tabaccherie, tintoria o lavanderie) che dedicano solo un angolo allo sfuso”.
Per il primo bando da 20 milioni sono stati 83 i negozi ammessi a finanziamento, per il secondo 178. “Tutti gli esercizi commerciali - scrive il MASE - dovranno essere monitorati per i prossimi tre anni vista la natura sperimentale della misura”. Nei bandi è stato dimenticato anche il mercato zero waste, del quale fanno parte quei prodotti d’uso comune (dalla coppetta mestruale allo shampoo solido, fino al detersivo lavatrice in fogli) che sono stati riprogettati senza imballaggi per avere un minor impatto ambientale.
Per spingere il settore dello sfuso ora serve abbassare le tasse
Per il settore degli sfusi questo contributo da 5000 euro fa certamente comodo per investire su qualche attrezzatura, ma non cambia lo stato delle cose. “Più che contributi una tantum – ci dice Giuseppe di Antica Spesa, negozio sfuso che non ha potuto partecipare al bando perché nato primo del 2020 – secondo me si dovrebbe intervenire su altri fattori più rilevanti. È allucinante pagare 1500 euro all’anno d’immondizia a Torino per buttare un sacco di plastica e un mezzo bidone di cartone alla settimana. Un bonus può aiutare a fare qualche investimento per il negozio, ma sono le tasse sui rifiuti che andrebbero abbassate”.
Pagare così tanto la Tari per negozi che producono così pochi rifiuti ha poco senso anche per Ottavia Belli, che propone di realizzare un codice ateco apposito. “Al momento i negozi alla spina sono considerati come minimarket e quindi devono pagare le stesse tasse. Un contributo da 5000 euro non cambia la situazione, si potrebbe abbassare l’Iva sui prodotti per incentivare i consumatori a comprare sfuso”.
Zeropercento è una bottega di prodotti etici e sfusi che dà lavoro a persone con disabilità aiutandole a ricollocarsi nel mondo del lavoro. “Stiamo aspettando ancora il contributo per le spese fatte nel 2021 – spiega Teresa, fondatrice di Zeropercento – ci servirà per coprire i costi delle bilance. Siamo contenti di ricevere questo bonus, ma sarebbe meglio operare tagli sul costo del lavoro. La rotazione di dipendenti in un negozio piccolo incide molto sui costi finali”.
La situazione post Covid dei negozi alla spina
Prima il Covid, poi la guerra e infine la crisi energetica con la conseguente impennata dei prezzi delle materie prime. Per lo sfuso, come tanti altri settori, sono anni di turbolenze e montagne russe. Se la pandemia ha paradossalmente incrementato le vendite (soprattutto online) portando il consumatore a privilegiare l’acquisto di cibo durante gli infiniti lockdown, poco tempo dopo la morsa dell’inflazione ha colpito in modo particolare i prodotti sfusi, rendendoli meno competitivi sul mercato alimentare. “La qualità dei prodotti venduti nei supermercati è completamente diversa rispetto a quella offerta dai negozi sfusi – commenta Ottavia Belli – Sono diversi in termini di provenienza, impatto sociale ed impatto ambientale ed è normale che costino di più. Negli ultimi quattro mesi hanno chiuso dieci sfuserie importantissime nel territorio italiano. Non perché i cittadini non vogliano questo tipo di negozio, ma perché purtroppo non hanno retto la botta della crisi energetica”.
Teresa di Zeropercento ci racconta come la pandemia abbia di fatto accresciuto la clientela, “perché la gente si è ritrovata a passare molto più tempo a casa senza poter andare al ristorante”. Ma da ottobre i prezzi sono lievitati e di conseguenza una certa fascia di popolazione ha tirato il freno a mano su questo tipo di acquisti .
“Il Covid ha penalizzato lo sfuso ma ha attirato più clientela negli ordini online – aggiunge Giuseppe di Antica Spesa-. Molte persone lavorando da casa hanno scoperto il nostro negozio e hanno iniziato a venirci a trovare più spesso durante la pausa pranzo”.
Ora più che mai, i negozi sfusi soffrono un’inflazione galoppante. Più che sporadici contributi, credono di meritarsi perlomeno una diminuzione sulla tassa di quei rifiuti che evitano di produrre
Immagine: Envato Elements