Se è vero che l’economia circolare riguarda non solo le soluzione tecniche ma anche una nuova mentalità, allora il continente africano, con i suoi approcci tradizionali nel mantenere i materiali in circolazione, si può considerare più circolare di molti Paesi del nord industrializzato. Dal sito industriale Suame-Kumasi in Ghana, dove più di 200mila lavoratori riparano e rivendono veicoli dismessi, al giardino della foresta di Kihamba in Tanzania, in cui gli agricoltori per essere più efficienti utilizzano i nutrienti e l'umidità del suolo, in Africa esistono già molti esempi di pratiche circolari. E l’organizzazione African Circular Economy Network - ACEN ha creato una mappa interattiva per mostrare le aree del continente con il maggior potenziale circolare.
Dati e circolarità
“Siamo un’organizzazione che crea consapevolezza e diffonde i principi dell’economia circolare – spiega a Materia Rinnovabile Bezawit Eshetu, Executive team member e Country Representative for Ethiopia di ACEN - Facciamo ricerche e studi esplorativi in 8 Paesi africani che secondo noi hanno del potenziale per implementare un modello circolare efficiente. Marocco, Senegal, Egitto e Nigeria sono i Paesi più avanzati. Anche Nairobi ha un grande potenziale: qui c’è la possibilità che idee circolari possano tramutarsi in veri e propri business model”. La diffusione di pratiche sostenibili nei Paesi in via di sviluppo si arena spesso contro lo scoglio della mancanza di dati. “In un continente come l’Africa è difficile per ora trovare cifre o dati significativi. Esiste ancora un gap, è vero – ammette Bezawit Eshetu - Raccogliere dati per misurare l’effettiva circolarità di una città non è tuttavia una sfida solo africana, ma direi globale. Trovare standard comuni è assai complicato. Quando si può affermare che è un prodotto è davvero circolare? Non abbiamo ancora standard e parametri ufficiali per dirlo e la faccenda diventa ancora più complicata quando si valutano Paesi in via di sviluppo”.
Mercato automobilistico: usato e cultura della riparazione
I paesi africani sono fonte di molte delle materie prime che il mondo necessita: dai metalli delle terre rare fino al cibo. Tuttavia l’economia dell’usato di prodotti importati dall’estero - plastica, abbigliamento, automobili e elettronica - occupa un ruolo centrale. I mercati africani estendono la vita di prodotti e materiali che altrimenti sarebbero buttati via, ma hanno anche lo svantaggio di perpetuare modelli di consumo non sostenibili, ad esempio estendendo il ciclo vita di veicoli diesel di seconda o terza mano. “Importiamo molti prodotti di seconda mano. Questo non significa che non conosciamo l’impatto climatico che questi possono avere - specifica Bezawit Eshetu – Il punto è che le persone non si possono permettere quelli nuovi”.
Secondo un report della Ellen MacArthur Foundation, il mercato automobilistico africano è dominato dall’importazione di veicoli usati dall'Europa e dal Nord America. Il 40% dei 14 milioni di veicoli leggeri usati ed esportati da Europa, Stati Uniti e Giappone tra il 2015 e il 2018 è andato in Africa. Tuttavia c'è una fiorente cultura della riparazione e ristrutturazione nel continente, finalizzata a mantenere i veicoli in uso il più a lungo possibile. Circa l'85% di tutti i veicoli sulle strade africane sono stati sottoposti a riparazione. Non esiste però anche una consolidata sinergia tra i produttori di auto internazionali e le officine locali, dal momento che ci sono poche strutture in grado di rigenerare i materiali. “Dovremmo aumentare la produzione di componenti – aggiunge Eshetu – La domanda di auto crescerà e l’opportunità di investire c’è. Sarebbe un investimento importante anche secondo i criteri ESG (Environmental, Social and Governance)”.
L’impatto devastante dei rifiuti tessili
Di cruciale importanza per l’economia africana è il settore tessile che impiega più di 300 milioni di persone lungo la catena del valore. La produzione di cotone rappresenta il fiore all’occhiello dell’industria (sebbene Cina e India siano ancora i maggiori produttori), ma il continente, nonostante abbia culturalmente già integrato principi di economia circolare nel riuso e nella riparazione dei tessuti, deve affrontare alcune criticità. Negli impianti di produzione attuali si registra un eccessivo uso di acqua, energia e l’utilizzo di inquinanti organici persistenti. “L’impatto dei rifiuti di abbigliamento è devastante – dice Bezawite Eshetu. Un’incapacità nel raccogliere e recuperare i tessuti porta i vestiti ad essere abbandonati o bruciati in discariche a cielo aperto”. L’impatto di coloranti, sostanze chimiche e microfibre sull’ambiente e sulla salute delle persone è significativo.
Agrifood: una sfida per l’Africa circolare
L’agricoltura è un pilastro dell’economia africana – dà lavoro a più della metà della popolazione e contribuisce a circa il 23% del PIL - ma soffre di un progressivo impoverimento del suolo. “Utilizziamo troppi fertilizzanti e prodotti agrochimici invece di usare fertilizzanti naturali – spiega Eshetu -. Stiamo perdendo per sempre la fertilità del nostro suolo e un prezioso capitale naturale. È singolare pensare che alcuni Paesi debbano importare frutta e verdura quando potrebbero essere autonomi e indipendenti.” Per una varietà di fattori come la qualità e l'accesso ai contenitori di stoccaggio, inefficienti sistemi di trasporto e mancanza di refrigerazione, lo spreco alimentare in Africa rimane significativo (stimate perdite per 4 miliardi di dollari che potrebbero sfamare 48 milioni di persone). La Nigeria, seconda produttrice di pomodori del continente, perde fino al 50% di pomodori dopo la raccolta.
Il materiale organico costituisce fino al 60% del flusso di rifiuti solidi urbani nelle città africane, flusso che è destinato a raddoppiare nei prossimi 30 anni. “Permettere a questo materiale di essere sepolto in una discarica o marcire provoca un impoverimento della fertilità del suolo”, suggerisce uno dei report della Ellen MacArthur Foundation dedicato all’agricoltura. “Ripensare i i rifiuti organici urbani come materia prima per una bioeconomia a basse emissioni o come nutrienti per supportare terreni sani significa risolvere un costoso problema. I rifiuti organici potrebbero trasformarsi in un business profittevole ed ecosostenibile”.
Il caso del Rwanda
Uno degli 8 Paesi che è finito sotto la lente di ingrandimento per un promettente potenziale in ottica circolare è il Rwanda. Il Paese situato nel cuore dell’Africa ha una delle più basse impronte di carbonio nel mondo (nel 2019 ha emesso meno di un milione di tonnellate di CO2) e basa la sua economia principalmente sull’agricoltura pluviale, sempre più vulnerabile a causa dei fenomeni meteorologici estremi. Negli ultimi anni il Rwanda è stato protagonista di un boom economico che ha drasticamente abbassato il tasso di povertà - dal 77,2% nel 2001 al 55,5% nel 2017 Nel 2020 il tasso di povertà si attesta al 39% e con una capitale, Kigali, sulla buona strada per diventare una vera smart city. Da punto di vista ambientale, il Rwanda ha compiuto diversi passi in avanti. Il governo ha posto la politica sul cambiamento climatico come una priorità e si è impegnato a pianificare una strategia nazionale. Essendo una Paese in via di sviluppo, il Rwanda ha il vantaggio di non dover pensare ad una strategia di decarbonizzazione come i Paesi industrializzati, ma può puntare ad una crescita green.
La crescente ventata green che attraversa il Paese è generata soprattutto da giovani imprenditori locali, vogliosi di diffondere pratiche circolari. Uno di questi è Ghisali Irakoze. Dopo aver visto all’età di 11 anni un suo amico essere sommerso da una montagna di rifiuti che gli hanno causato multiple fratture alla gambe, Irakoze, co-autore del Country report for Rwanda in cooperazione con EU, ha deciso sin da bambino di voler vivere in un mondo libero dai rifiuti. Nel 2017 ha cominciato a collaborare con alcuni sviluppatori di software per fondare Wastezon, un'app che collega famiglie, riciclatori e commercianti di rottami nel tentativo di riutilizzare i rifiuti elettronici.
Il progetto di Wastezon è ancora in una fase iniziale: 420 famiglie si sono iscritte, ma in un anno è passato dal trattamento di 20 tonnellate di rifiuti elettronici a ben oltre 400 tonnellate, che l'azienda calcola equivalente a 2.826 tonnellate di emissioni di CO2 evitate. Irakoze e il suo team stanno ora lavorando anche ad un’ultima innovazione: lo Smart Bin, un dispositivo che differenzia automaticamente i rifiuti domestici e tiene traccia anche della decomposizione dei rifiuti.
Immagine: Serengeti, ph Hu Chen (Unsplash)