Cosa è diventato il cibo? Cosa significa per la società occidentale nutrirsi? Quale la collocazione, metaforica, nel piatto di una pietanza di carne? Cosa s’intende per sicurezza alimentare? Domande, a volte semplici, su cui però raramente ci soffermiamo a riflettere. Non sappiamo cosa abbiamo nel piatto, ma soprattutto perché. Nutrire 7 miliardi di persone è un’operazione complessa, che si svolge in maniera radicalmente differente da come si faceva solo 50 anni fa. Una trasformazione antropologica e culturale di cui ancora non si conosce la reale estensione. 

Ne abbiamo discusso con la studiosa statunitense Danielle Nierenberg, presidente e fondatrice di Food Tank, un centro di ricerca volto a promuovere modelli di produzione e alimentazione sostenibili. Quest’anno ha pubblicato con il Barilla Center for Food and Nutrition, Nourished Planet per Island Press con l’obiettivo di ripensare i sistemi agroalimentari, cercando una vera sostenibilità globale.

 

Cerchiamo costantemente soluzioni alle problematiche legate al cibo. Ma la situazione non migliora, l’agricoltura impatta sempre di più sui limiti del pianeta mentre la produzione rimane stagnante. Il nostro sistema agroalimentare è sull’orlo del collasso? Possiamo aggiustarlo?

“Una cosa che emerge chiaramente dal nostro lavoro qui a Food Tank è che non c’è una soluzione universale per aggiustare il sistema alimentare. Non c’è una bacchetta magica. Abbiamo bisogno di molteplici soluzioni che affrontino le sfaccettature del problema. Dobbiamo smetterla di focalizzarci esclusivamente sul rendimento e sull’apporto calorico. Questo approccio ha favorito il rendimento a breve termine, dando vita a conseguenze serie, anche se spesso involontarie. Abbiamo un sistema agroalimentare che si concentra sulla vendita del raccolto senza garantire cibo sano e nutriente: dobbiamo cambiare questo paradigma. La maggior parte di ciò che si coltiva nel mondo, incluso il grano, il mais, il riso e altri tipi di alimenti di base ricchi di amido non contengono abbastanza nutrienti. Queste colture sono ideali quando vengono convertite in mangime per animali, ma non garantiscono una catena alimentare sana, richiedono molte risorse e in tanti casi fanno uso di input artificiali come i fertilizzanti chimici. Oltretutto, sono spesso accompagnate da conseguenze ambientali, economiche e per la salute pubblica anche gravi. Parte del paradosso alimentare globale – che vede 850 milioni di persone patire la fame, mentre circa 2 miliardi sono sovrappeso o obese – è radicato nel nostro utilizzo di commodity crops che non sono ricche di nutrienti. 

Ci dobbiamo concentrare sulla produttività, sulla biodiversità e su come nutrire il mondo a lungo termine. Quindi dobbiamo affidarci al sapere tradizionale e alle soluzioni intelligenti, oltre a dover ripensare il modo in cui usiamo e proteggiamo il suolo.”

 

Che ruolo avranno le colture tradizionali nella trasformazione del modello agroalimentare?

“Il ruolo delle piante indigene e tradizionali è spesso trascurato. Ci dimentichiamo di considerare colture che in realtà sono ottime per la fertilità del terreno, come i legumi. Abbiamo dimenticato tante pratiche tradizionali come quelle agroforestali e l’agricoltura consociata (coltivazione contemporanea di piante di specie diversa sullo stesso appezzamento di terreno, nda), che ci consentono di salvaguardare il terreno, l’utilizzo di colture perenni come il sorgo, che a differenza della coltivazione intensiva meno attaccabili da insetti e malattie, e di colture più resistenti alle inondazioni, alla siccità e alle temperature alte. Gli alimenti tradizionali, che spesso hanno un alto potenziale nutritivo, non ricevono sufficienti attenzioni, ricerca e investimenti. Non sono ad alto rendimento e spesso vengono considerati alimenti adatti solo alle persone povere. 

Credo che ci siano modi molto interessanti di unire metodi di coltivazione ad alta e bassa tecnologia. Stiamo vivendo la nascita di nuove e semplici tecnologie, come per esempio app per smartphone che aiutano gli agricoltori nella raccolta di informazioni relative ai mercati; droni per lavorazioni agricole di precisione; intelligenza artificiale come strumento utilizzato da piccoli e grandi produttori per stabilire affari migliori e incrementare i guadagni, ma anche aiutando a proteggere le risorse naturali e favorire l’uguaglianza sociale.”

 

Il tema dell’acqua richiede un connubio tra metodi tradizionali e quelli hi-tech. Qual è il giusto rapporto tra questi due fattori nel gestire il problema della scarsità idrica?

“I cambiamenti climatici stanno riducendo le nostre risorse idriche. Sarà fondamentale stabilire sistemi di gestione idrica adeguati, specialmente nell’agricoltura che è responsabile per il 70% del consumo globale d’acqua. Dobbiamo proteggerci dalla scarsità idrica, ma anche in questo caso non si tratta di trovare una soluzione universale. Detto questo, sappiamo che alcune pratiche – come le monocolture di verdure, noci, grano e soia in luoghi come la California – portano a un aggravamento dei casi di siccità. Dobbiamo comprendere che le colture di oggi potrebbero non essere le stesse tra 10 o 15 anni. Dobbiamo essere in grado di diversificare i sistemi agricoli, e imparare a a lavorare con colture differenti che insieme possono contribuire a trattenere l’acqua, prevenire l’erosione del suolo, creare ombra naturale e anche assorbire grandi quantità di CO2.

La tecnologia deve migliorare: irrigazione a goccia, tecniche di precisione che consentono ai contadini di utilizzare una certa quantità d’acqua lì dove serve di più, misurazione accurata dell’evaporazione in modo da non sprecare acqua. Tutto ciò sarà fondamentale. Ci arriveremo. Ma quello di cui abbiamo realmente bisogno è avere maggiore diversità nel sistema agroalimentare e di allontanarci dall’ideologia della monocultura.”

 

Oggi viviamo in una strana epoca dove il cibo è assolutamente costoso e simultaneamente super-economico, scarso e allo stesso tempo talmente abbondante che viene sciupato senza vergogna. 

“Sussiste un’inspiegabile schizofrenia intorno al cibo, oggi. Consumatori danarosi pagano cifre assurde per design food, prodotti bio, prodotti di affermati chocolatiers, vini pregiati, formaggi di lusso. Ma in Usa e Europa il cibo comune è incredibilmente economico: in questi paesi si spende per il cibo anche meno del 10% (in Italia è circa il 15%, nda) del reddito. Noi ci aspettiamo, pretendiamo, che il cibo al supermercato abbia prezzi veramente contenuti. E quando i prezzi salgono protestiamo con forza, come accaduto in Usa negli anni ’70, con le proteste delle madri di famiglia nel reparto carni per l’aumento di bistecche e braciole. La più recente legge americana sull’agricoltura (il Farm Bill) – similmente a quanto accade in Europa, – ha confermato ingenti sussidi, al fine di mantenere artificialmente bassi i prezzi del cibo. Se però andiamo nei Paesi in via di sviluppo, il costo del cibo, specie a partire dal 2007-2008, è salito a dismisura, fino a rappresentare l’80% del reddito pro capite. E parliamo di colture primarie, non di un’alimentazione completa, parliamo di ‘cibo che riempie’, ma che spesso non è nemmeno sufficientemente nutriente, vista la scarsa varietà di colture dettata dall’agrobusiness. Questo squilibrio di prezzi ha dato avvio a numerosi scontri in Mozambico, Tunisia e altri paesi. Oggi i giovani sono hangry (crasi tra hungry, affamato e angry, arrabbiato, nda).”

 

Insomma, diamo valore al cibo e allo stesso tempo lo neghiamo. 

“Una parte del mondo paga il cibo troppo e un’altra troppo poco. Una contraddizione cui si aggiunge la questione della speculazione. Non è un caso che la crisi alimentare e quella finanziaria si siano scatenate simultaneamente. Se il cibo non è visto come un diritto, ma come una merce da scambiare sui mercati internazionali dei futures, c’è un problema. I prodotti alimentari non sono né diamanti, né altre materie prime che possono essere vendute sui mercati finanziari, né tanto meno azioni. Non possiamo avere derivati e prodotti finanziari sofisticati su riso e grano. Basta che i prezzi fluttuino e un’intera nazione si può trovare sull’orlo della fame. Non è una merce su cui speculare. Attualmente nel mondo c’è cibo a sufficienza per nutrire tutti. Non è un problema di quantità prodotta. È un problema di distribuzione e di valore. Pensiamo all’obesità, un accumulo esagerato di risorse non certo per nutrirti.”

 

Come possiamo dunque ricostruire un valore reale del cibo, lontano da speculazioni economiche e interessi del mondo dell’agrobusiness? 

“Olivier De Schutter, Special Rapporteur sul diritto al cibo delle Nazioni Unite, ha ufficialmente dichiarato che ci vuole una netta divisione tra i mercati alimentari e il mercato finanziario. Inoltre, bisogna definire il diritto all’alimentazione come un diritto fondamentale dell’uomo. Secondo, dobbiamo ripensare allo spreco di 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti alimentari buttati ogni giorno, una cifra che secondo le nostre stime è ancora più alta considerando le perdite post-raccolto, il deperimento degli stock e il semplice spreco domestico. Questo accade nei paesi industriali dove il costo del cibo è come detto molto basso perché il cibo viene privato del suo reale valore. Non consideriamo importanti gli sprechi, ma dovremmo imparare a preservare il cibo, come fa un contadino in Ruanda o Malawi: lui e la sua famiglia non sprecano nemmeno un grammo di cibo. Non è un problema solo morale: è una questione ambientale, visto le emissioni legate alla produzione del cibo e quelle della gestione dei rifiuti.”

 

Possiamo creare un’economia circolare del cibo?

“Oggi possiamo ricavare dagli scarti alimentari diversi prodotti: carta, tessuti, materiali compostabili come sacchetti o cannucce. Quello che non abbiamo ancora fatto è guardare alla questione in maniera sistematica e olistica. Politici, imprese e cittadini stanno comprendendo che un sistema integrato può veramente dare spazio all’economia circolare, che porterà a soluzioni migliori.” 

 

 

Food Tank, foodtank.com