La domanda di plastica, nella sola Europa, sfiora i 50 milioni di tonnellate all’anno, di cui il 40% per il packaging, quasi tutto monouso. Troppo. Gli esempi di over-packaging arrivano soprattutto dal settore alimentare. Ma quando, e perché, si è passati dalla necessità all’eccesso? E soprattutto, come si inverte la rotta?
Due candide uova sode sgusciate e impacchettate: adagiate, quasi fossero preziosi soprammobili, in una vaschetta di plastica, con coperchio trasparente e involto di cartoncino con marchio, certificazioni e scadenza. L’ultimo esempio di over-packaging alimentare che ha sollevato un’ondata di indignazione da tastiera non proviene dal regno del fast-food d’oltreoceano, e neanche da un convenience store asiatico con i mandarini a spicchi nel banco frigo. Le uova “salvatempo” si possono comprare nei supermercati della vecchia Europa. E, del resto, non sono poi una trovata tanto diversa dalle insalate pronte che spopolano negli uffici, senza che nessuno se ne indigni.
Ma come, e soprattutto perché, si è arrivati dalle uova fresche avvolte nella carta di giornale ai capolavori di sovra-imballaggio che oggi riempiono i banchi frigo?
Necessità ed eccessi
Se ci sono eccessi che quasi urlano l’assurdità della loro esistenza dagli scaffali del supermercato, in genere non è però semplice definire un confine netto tra packaging, utile e legittimo, e over-packaging, per definizione superfluo e dannoso. Erik Ciravegna, docente di Design del packaging alla Pontificia Università Cattolica del Cile, è relativista. “Bisogna innanzitutto contestualizzare. Quello che oggi ci sembra senza senso, negli anni ‘90 veniva salutato come un’innovazione nel campo della consumer experience e del marketing”. Insomma, se ci si mette nei panni delle aziende che devono vincere la concorrenza ed emergere su mercati sempre più affollati, allora l’idea del “ti sbuccio l’uovo così risparmi tempo” può anche apparire una novità brillante.
Al di là delle trovate infelici, il packaging ha comunque alcune funzioni fondamentali a cui non può venire meno. Come spiega Ciravegna, deve innanzitutto proteggere e conservare il suo contenuto; deve essere funzionale a tutta la catena logistica, dal trasporto all’esposizione in negozio; deve farsi veicolo di informazioni sul prodotto; deve identificare un brand e attirare l’attenzione dell’acquirente. È insieme un supporto logistico indispensabile e un mezzo di comunicazione potente. “Il segreto sta nel trovare il punto di equilibrio fra eccesso, che impatta sull’ambiente, e carenza di imballaggio, che può portare ad altri tipi di problemi, come il deterioramento precoce del cibo, la sua contaminazione, la mancanza di protezione per alimenti particolarmente delicati”.
La curva di Soras è stata sviluppata da Innventia AB, società di ricerca e sviluppo con sede in Svezia.
Responsabilità e corresponsabilità
“Il packaging, quello di plastica in particolare, è sempre additato come il cattivo del film. Ma chi l’ha fatto diventare ‘cattivo’?”. A Erik Ciravegna non piace “dare la colpa” a una categoria, men che meno a degli oggetti inanimati: preferisce un più onesto principio di corresponsabilità. “Il problema non è la plastica, che è un materiale dalle proprietà eccezionali, utilissimo in svariate occasioni. Il problema siamo noi, le nostre abitudini a cui non sappiamo rinunciare, il modo in cui produciamo la plastica, la usiamo, la smaltiamo. Il problema è il monouso”.
Un problema diventato di proporzioni insostenibili. Secondo il report “Unwrapped”, redatto nel 2018 da Zero Waste Europe e Friends of the Earth per Rethink Plastic, la domanda di plastica in Europa ha raggiunto i 49 milioni di tonnellate annue, di cui il 40% utilizzate per il packaging, quasi tutto monouso. Si stima che il 95% del valore del packaging vada perduto dopo il primo utilizzo e le Nazioni Unite hanno calcolato che il costo globale in termini di capitale naturale per la plastica nell’industria alimentare si aggiri intorno a i 15 miliardi di euro all’anno.
Ora, se è vero che la responsabilità è di tutti, bisogna trovare un modo per innescare un circolo virtuoso, che incoraggi i consumatori ad abbandonare le cattive abitudini, incentivi i produttori a servirsi di imballaggio riutilizzabile e spinga la grande distribuzione a vendere i prodotti con il minimo packaging necessario. “Bisognerebbe radunare tutti attorno a un tavolo e cominciare a progettare insieme le soluzioni”, chiosa Ciravegna.
È quello che cerca di fare, in un certo senso, la Sustainable Packaging Coalition, che riunisce su base volontaria aziende, istituzioni educative e organizzazioni governative (ma le Ong sono escluse) per promuovere la cultura dell’imballaggio sostenibile. Fanno parte della coalizione nomi come Barilla, Bonduelle, DelMonte, Ferrero, Kellogg, McDonald’s, Nestlè, Starbucks, Walmart. Ai membri tuttavia – come ci spiega la gentile addetta stampa – non viene chiesto nessun impegno vincolante che riguardi i loro affari.
Il retail ci prova
Se da qualcuno bisogna cominciare a innescare il circolo virtuoso, forse i primi della lista sono i supermercati. La “throwaway convenience culture”, come è additata in un report di Greenpeace e Environmental Investigation Agency UK, è ormai la forma mentis che determina la maggior parte delle nostre scelte di consumo, soprattutto alimentari. Non c’è da stupirsene, visto che è la grande distribuzione a interagire direttamente con gli acquirenti: un grande potere, da cui deriva una grande responsabilità. Ma cosa sta facendo il settore del retail? Raccogliere le voci dei diretti interessati su un tema che li vede al banco degli imputati non è semplice. Chi ha risposto alla chiamata di MR lo ha fatto con comunicati stampa sulle proprie politiche di sostenibilità. Come Auchan Retail, che annuncia la sua adesione all’European Plastics Pact e l’impegno a eliminare entro il 2022 la plastica per l’ortofrutta self-service e i servizi di ristorazione. Mentre Tesco rimanda alle sue iniziative di ecodesign per snellire il packaging di alcuni prodotti o passare a plastiche più facilmente riciclabili.
Per il mondo delle Ong gli sforzi, benché apprezzabili, non sono abbastanza. “Le stime degli imballaggi in plastica immessi sul mercato dai rivenditori negli stati europei suggeriscono che i supermercati da soli sono responsabili di circa 900.000 tonnellate di imballaggi in plastica per paese ogni anno”, si legge nel già citato “Unwrapped”. “Siamo consapevoli che diversi supermercati stanno provando a fare qualcosa, in particolare quelli che implementano sistemi di vendita packaging-free. - commenta Larissa Copello de Souza, campaigner di Zero Waste Europe - Ma ci sono ancora molte barriere, come i regolamenti su igiene e sicurezza, diversi da paese a paese, che impediscono di vendere determinati prodotti senza packaging o in contenitori riutilizzabili”.
A parte i prodotti idonei per la vendita alla spina, ci sono diverse altre tipologie di merci su cui intervenire. Veri incubi per lo spreco di imballaggio sono ad esempio le monoporzioni, di cui si è registrato un boom negli ultimi anni. Ma anche tutti i cibi pre-cucinati, gli ortaggi pre-lavati, la frutta tagliata, così come i “formati risparmio” che raggruppano, avvolte in strati di plastica o carta, più confezioni singole. La scusa ufficiale dei retailer è che vogliono far risparmiare soldi ai clienti ed evitare sprechi. Ma quello che i dati contenuti in “Unwrapped” dimostrano è esattamente il contrario: i pacchi formato famiglia inducono ad acquistare più del necessario, portando quindi a uno spreco di soldi e di prodotti; i cibi pronti deperiscono in fretta e hanno più probabilità di finire nella spazzatura, come succede ogni anno a 178 milioni di buste di insalata pre-lavata nel Regno Unito; e, in generale, l’uso di packaging in plastica e lo spreco di cibo sono aumentati simultaneamente dagli anni ‘50 ad oggi.
Che fare?
Per trovare le soluzioni serve allontanare i ragionamenti settoriali e abbracciare un approccio olistico.
Allargando lo sguardo, la prima cosa evidente è che “passare semplicemente dalla plastica a un altro materiale, come la carta, non è la soluzione, soprattutto se andiamo avanti con il monouso”, fa notare Larissa Copello. Diversi brand come McDonald’s, Starbucks, Nestlè, Nesquik hanno annunciato con orgoglio nuove tazze, cannucce o confezioni in carta – si legge nel report “Throwing away the Future” di Greenpeace (2019) – senza però preoccuparsi davvero degli impatti della filiera della carta o della effettiva riciclabilità dei presunti packaging sostenibili (come per le cannucce di McDonald’s, in cui spessore e adesivi usati sono incompatibili con gli attuali sistemi di riciclaggio).
Fondamentale è allora puntare sull’eco-design, per avere imballaggi progettati per non produrre rifiuti. “Molto utile - continua Copello - sarebbe avere packaging standardizzato riutilizzabile per la catena logistica, in modo che i produttori possano condividerne i costi e rimetterlo in circolo per ogni trasporto. Ma per questo servirebbe un intervento legislativo dall’Europa, da cui dovrebbe arrivare anche un forte supporto ai modelli di business ‘zero rifiuti’ come i negozi senza packaging. Che tra l’altro collaborano con i produttori locali, promuovendo la filiera corta e superando quindi molti dei problemi legati al trasporto dei prodotti”. Alla fine si torna alle uova avvolte nella carta del giornale dell’altroieri: a pensarci, un perfetto esempio di circolarità.
Per approfondire: scarica e leggi il numero 33 di Materia Rinnovabile dedicato al sistema cibo.