Abbracciare la complessità significa allargare il proprio campo visivo e imparare a comprendere e considerare le interconnessioni tra fenomeni anche apparentemente lontani. Vuol dire inoltre accettare l’incertezza che necessariamente deriva dalla conoscenza e il limite che è in tutte le cose naturali, uomo incluso. Nell’epoca dell’arroganza tecnologica, abbiamo più che mai bisogno di sviluppare un pensiero connettivo che sappia ricomporre i pezzi di un quadro troppo frammentato e confuso, ricondurci a una visione sistemica e ridimensionare il ruolo che ci siamo autoassegnati sul Pianeta. È uno strumento, anzi lo strumento fondamentale per affrontare la crisi globale che stiamo vivendo, quella pandemica ma soprattutto quella ambientale. Ed è uno strumento che solo l’educazione può fornire.
Ne abbiamo parlato con Federico M. Butera, professore emerito del Politecnico di Milano ed esperto di energie rinnovabili e architettura sostenibile, che ha da poco pubblicato per Edizioni Ambiente il libro “Affrontare la complessità”.
Viviamo in un'epoca di semplificazioni e polarizzazioni. Perché invece è importante tornare al concetto di complessità, soprattutto in ecologia?
Perché sono complessi i sistemi nei quali viviamo. Quello sociale, quello biologico quello ecologico. In realtà quando parlo di complessità faccio riferimento implicito a quella che si chiama la scienza della complessità che si è sviluppata particolarmente nell'ultimo trentennio. L’idea di base è che non è possibile affrontare nessuno dei problemi che ci riguardano se non tenendo conto dell'aspetto sistemico. Prendiamo ad esempio il corpo umano. Lei ha mai letto un bugiardino? Anche per il più comune dei farmaci, come l’aspirina, sono indicati almeno una cinquantina di possibili effetti collaterali, ovvero possibili conseguenze su processi biologici diversi. Questo perché l'organismo umano è un sistema complesso e introdurre al suo interno la molecola di acido acetilsalicilico (il principio attivo dell’aspirina) comporta conseguenze su tutto l'organismo. Questa è la complessità.
Dobbiamo sforzarci di capire che non è possibile intervenire su un singolo problema e pensare che la cosa si chiuda lì, senza effetti su tutto il resto. È necessario cambiare mentalità e capire che l'incertezza deriva proprio dalla complessità: non è mancanza di capacità, è conoscenza. La conoscenza implica incertezza, ma implica anche la possibilità di controllarla in qualche modo.
Forse non siamo più abituati ad accettare l'incertezza?
Sì, è anche questo il punto. Abbiamo un problema di salute? Prendiamo un certo farmaco e lo mettiamo a posto. L'automobile ha un guasto? il meccanico la ripara. Il telefonino non funziona più? ne compro uno nuovo. La tecnologia ci ha illusi di poter risolvere qualsiasi problema con l’apposita soluzione. Il che non è assolutamente vero. Ad esempio, per i telefoni cellulari ogni componente è importata da un luogo diverso del mondo; con il blocco delle frontiere causato dalla pandemia il sistema che davamo per scontato è andato in crisi e improvvisamente i pezzi per comporre questo oggetto di uso quotidiano sono diventati difficili da reperire. Perché in realtà dietro c’è un sistema complesso di cui ci siamo accorti solo ora che la crisi lo ha reso evidente.
Secondo lei anche il discorso ambientalista ha perso di vista la complessità, appiattendosi un po’ troppo sulla questione climatica?
Sì, direi di sì. Ma è comprensibile perché quella climatica è la questione che appare più evidente e più chiara ed è quindi quella su cui stiamo ponendo il massimo dell'attenzione. Più che altro sono i media, visto che in realtà la comunità scientifica si concentra allo stesso modo anche su altri aspetti della crisi ambientale, che io cerco di analizzare nel mio libro.
Indubbiamente la crisi climatica è un aspetto importante, ma guai a ritenere che risolvendo questo problema abbiamo risolto tutto. Anche qui si tende a semplificare: dobbiamo eliminare le emissioni di CO2 in atmosfera, allora sostituiamo i combustibili fossili con l’energia solare ed eolica e siamo a posto. Neanche per idea! Questa è solo una parte del problema. Certamente va fatto, ma non basta. Un articolo uscito su Nature qualche tempo fa dimostrava come, anche se magicamente riuscissimo al 2050 ad azzerare le emissioni di CO2, continuando però ad utilizzare gli stessi metodi che usiamo oggi in agricoltura supereremmo comunque l’aumento di 1,5 gradi di temperatura media. Perché c’è molto altro oltre al consumo e alla produzione di energia da tenere in considerazione.
Nel suo libro è delineata una fittissima rete di interconnessioni. Quali sono gli snodi e i fenomeni principali che tutti dovremmo avere ben presenti?
Gli elementi centrali sono certamente il cambiamento climatico, che ha ripercussioni molto forti a tutti i livelli, e la perdita di biodiversità, che ci porta nel baratro della sesta estinzione entro la quale potremmo anche rientrare noi (soprattutto le popolazioni dei paesi più poveri e con meno mezzi per far fronte alla crisi). Altro elemento fondamentale, che è la causa principale della perdita di biodiversità e una delle cause del cambiamento climatico, è il modo in cui produciamo il cibo, ovvero il settore agricolo.
Quindi, per prima cosa dobbiamo impegnarci a ridurre le emissioni di CO2 con tutti gli strumenti a nostra disposizione, soprattutto applicando i principi di un’economia circolare vera, che vada al di là del semplice riciclo, fino ad arrivare a non produrre più rifiuti. Significa applicare una serie di soluzioni che mirino ad allungare la vita utile dei prodotti, attraverso la riparazione, la rifabbricazione, il riuso. Dobbiamo arrivare a comprare il meno possibile, è prioritario far uscire il consumismo dalle nostre vite.
Secondo punto: dobbiamo imparare a mangiare in modo diverso e quindi a produrre il cibo in modo diverso. Ci sono segnali interessanti a questo proposito, come l’attenzione che sempre di più si pone alla provenienza del cibo, al km0, al biologico. L'agricoltura deve cambiare. Non è vero che rinunciando alle monocolture e agli allevamenti intensivi si rischia di affamare miliardi di persone, gli studi dicono il contrario. Ad esempio, se riducessimo drasticamente gli allevamenti intensivi potremmo liberare un 30% di terreno agricolo da utilizzare per coltivazioni biologiche e agricoltura rigenerativa, così da produrre abbastanza cibo per tutti.
I verbi connettere e interconnettere sono oggi fra i più usati, addirittura abusati. Perché allora, quando si arriva al discorso ambientalista, è così difficile spiegare la rete di interconnessioni fra i vari fenomeni?
Perché bisogna sapere. Dietro la capacità di vedere e di capire le interconnessioni, c’è la conoscenza delle materie di cui si sta parlando. Per mettere in relazione la produzione tecnologica con il modello economico e con la ricaduta sociale bisogna almeno aver letto un libro di tecnologia, uno di economia e uno di sociologia, o comunque aver studiato qualcosa su questi temi. Ma se si ha solo una conoscenza mono-disciplinare – che è poi quella alla base del nostro sistema formativo – allora è difficile vedere le connessioni. È come se gli altri “mondi” non esistessero: come si può arrivare a chiedersi se c’è la gravità sulla Luna, quando non si sa nemmeno che la Luna esiste?
Questo è dunque un altro tema centrale: urge un cambiamento nel sistema educativo che lo renda più aperto alle connessioni. Torna attuale l’appello inascoltato contenuto nel Libro Bianco dell'Istruzione pubblicato dalla Commissione Europea nel 1996 e curato dall'allora commissaria per la formazione e la cultura Édith Cresson: dobbiamo smetterla – si leggeva nel documento – di pretendere un sistema educativo che abbia come obiettivo la creazioni di lavoratori pronti ad essere immessi nel sistema produttivo. Dobbiamo costruire innanzitutto persone. Poi queste persone diventeranno anche lavoratori.
È dunque per questo motivo che, scrivendo “Affrontare la complessità”, lei si rivolge in primis agli educatori?
Sì, perché sono alla base di tutto. Questa crisi non si risolve con il PNRR o il Next Generation EU. Certo sono passi avanti, ma ciò di cui abbiamo più bisogno è la conoscenza e la coscienza da parte di chi dovrà portare avanti le soluzioni. Non sarò certamente io, ma saranno le mie nipoti o i miei nipoti, saranno loro ad essere qui fra il 2050 e il 2100: l’obiettivo sono loro. Anche perché chi oggi ricopre ruoli di decision makers ha 50 o 60 anni, un’età in cui è difficile trasformare la propria visione della vita...
Chi, quali categorie di persone sono oggi in grado di maneggiare il concetto di complessità e chi invece dovrebbe imparare un po’ di più a farlo?
Questo è difficile da dire. Posso dire più che altro chi non è in grado di farlo: il politico. Questa incapacità di vedere la complessità da parte dei decisori politici è addirittura codificata: si chiama short termism. Significa che i decisori politici prendono decisioni con un orizzonte di al massimo due anni come tempo di ritorno della scelta operata. Che è poi coerente con il modello finanziario e industriale: oggi un imprenditore difficilmente farà un investimento con un ritorno di più di tre anni. Forse qualche imprenditore visionario, un olivettiano, potrebbe essere capace di progettare sul lungo periodo, ma per la classe politica ho poche speranze. Credo che la spinta in questo momento debba venire dal basso, come del resto sta avvenendo.
Un’ultima cosa. Lei parla nel libro di un fondamentale equivoco di cui il cosiddetto mondo della sostenibilità è vittima: la presunzione che le esigenze dello sviluppo economico e sociale stiano sullo stesso piano di quelle dell’ambiente. Come si esce da questo pericoloso peccato di hybris?
L’equivoco sta nel nostro esser convinti di dover trovare un compromesso tra la natura e noi, come se la natura fosse una variabile indipendente al pari delle altre. Faccio riferimento al classico grafico delle tre sfere, dove la “sostenibilità” viene rappresentata dalla sovrapposizione fra sfera sociale, economica e ambientale. Ma non sono sullo stesso piano! La rappresentazione corretta consiste invece in tre sfere concentriche: la sfera ambientale contiene quella sociale che contiene quella economica. Non possiamo “giocare” con l’ambiente come se fossimo altro dall’ambiente: ne siamo parte. Non ha senso dire “dobbiamo trovare un compromesso”: l’ambiente non può “compromettersi, siamo noi a doverci adattare alle sue regole. Prima della rivoluzione industriale questo tipo di equilibrio esisteva e funzionava. Nessuno si sarebbe sognato di radere al suolo la foresta accanto al villaggio, perché altrimenti sarebbero morti tutti di freddo e non avrebbero più potuto costruire neanche una casa in futuro. Questo è il punto: lo sapevano e si comportavano di conseguenza. C’era una riconosciuta necessità di LIMITE, e questa è un’altra parola chiave.
Cosa è stato a farci perdere la coscienza del limite?
La hybris, la tecnologia, la forza. Abbiamo scoperto che non è vero che la cosa più potente al mondo per trainare un tronco è un elefante: abbiamo il caterpillar con i cingoli che è molto più forte. Non è più vero che il cavallo è il mezzo più veloce per spostarsi: abbiamo inventato il treno e poi l’automobile. In sostanza, ci siamo illusi che grazie alla capacità e genialità tecnologica potessimo permetterci qualsiasi cosa. E ancora questa convinzione esiste. La gran parte delle persone che si rifiuta di modificare i propri stili di vita o accettare la necessità di un cambiamento del sistema economico, non lo fa per cattiveria ma perché è pienamente convinta che l'uomo sia Dio e possa fare quello che vuole. Dobbiamo smetterla di credere di non avere limiti. Il limite c’è e non possiamo fare altro che riconoscerlo e adattarci.