La mascherina sanitaria è di sicuro l’immagine che rimarrà stampata nella memoria collettiva una volta superata la pandemia. Simbolo di uno sconvolgimento epocale dei nostri stili di vita, ma anche, parlando di ambiente, di un’emergenza nell’emergenza: quella legata alla gestione dei rifiuti sanitari.
L’aumento delle quantità, lo smaltimento in sicurezza, l’assoluta necessità di arginare l’infettività del nuovo Coronavirus e di proteggere gli operatori del settore sono alcune delle problematiche emerse nelle ultime settimane. Ne abbiamo parlato con Valeria Frittelloni, responsabile del Centro Nazionale dei rifiuti e dell'economia circolare dell’Ispra.

Il coronavirus sulle superfici

La prima questione che si pone riguarda la persistenza del nuovo coronavirus Sars-CoV-2 sulle superfici con cui viene a contatto. L’Istituto Superiore della Sanità, rifacendosi alle indicazioni dell’OMS, parla di una persistenza che varia dalle poche ore ad alcuni giorni. “Purtroppo è difficile trovare dati certi e omogenei, perché le stime si basano su comportamento già noto di altri coronavirus”, spiega Valeria Frittelloni. “Per Covid-19 non si hanno al momento ancora certezze neanche per quanto riguarda la variazione in base a temperature stagionali. Si sa però che sopra certe temperature la carica virale si abbatte. Per questo, per lo smaltimento dei rifiuti sanitari potenzialmente infettivi, sono state indicate tipologie di trattamento che raggiungono temperature molto alte, come la digestione anaerobica e il compostaggio per la frazione organica, l’incenerimento per gli altri materiali”.

Il sistema di gestione dei rifiuti sanitari

“I rifiuti prodotti dalle aziende sanitarie seguono un flusso di gestione già tracciato dalla normativa, con procedure ben individuate e senza grossi problemi”. Le prassi a cui fa riferimento Frittelloni sono quelle individuate dal DPR 254 del 2003, la norma speciale sulla gestione dei rifiuti sanitari. “In particolare il decreto prevedeva che la gran parte dei rifiuti sanitari si potesse assimilare a quelli urbani: ad esempio gli indumenti monouso dei reparti normali, i rifiuti ortopedici, le bende, cioè tutti i materiali non provenienti da reparti a rischio infettivo. Un trattamento a parte devono invece avere sia i rifiuti a rischio infettivo che altri materiali pericolosi, come quelli provenienti dai reparti di radiologia. Per tutti questi rifiuti la norma prevede un percorso specifico. Vengono infatti imballati in sicurezza e conferiti a soggetti specializzati, che conoscono il rischio. La forma prioritaria di gestione è l’incenerimento, o in caso non fosse possibile la sterilizzazione per ridurre la carica infettiva prima di finire in discarica. In condizioni normali, circa il 60% di questi rifiuti va a trattamento termico, il 40% ad altre forme di smaltimento”.

Se in periodi normali i reparti a rischio infettivo degli ospedali sono molto limitati, dall’inizio della pandemia, tuttavia, sono aumentati sia i posti letto dedicati ai malati Covid che quelli in terapia intensiva. Sul lato rifiuti, la conseguenza sarà dunque un forte incremento delle quantità da trattare con processi speciali. “Facendo una stima a occhio sul numero dei posti letto, possiamo aspettarci almeno un raddoppio”, osserva Frittelloni. “Soprattutto considerando che, per questioni precauzionali, il Ministero della Salute ha ora classificato TUTTI i rifiuti prodotti dalle strutture sanitarie come a rischio infettivo”.
Per dare un’idea delle quantità, “si parla di una produzione che in condizioni ordinarie si aggira intorno alle 200mila tonnellate annue su tutto il territorio nazionale. Una dimensione abbastanza contenuta, se la si confronta con quella dei rifiuti speciali che arrivano a 150 milioni di tonnellate all’anno. Ma ci aspettiamo, quando arriveranno i dati, un aumento importante”.

Se i rifiuti urbani diventano infettivi

Il problema maggiore, tuttavia, non riguarda i rifiuti provenienti dalle strutture sanitarie, che sono già inseriti in un circuito rodato. La questione più spinosa è quella della gestione di materiali potenzialmente infettivi prodotti fuori dal circuito sanitario. Vale a dire, in tutte le aree particolarmente colpite dalla pandemia o nei quartieri dove ci siano malati lasciati a casa in quarantena. “Sulla questione è intervenuto direttamente l’Istituto Superiore di Sanità con indicazioni su raccolta urbana di rifiuti pericolosi”, spiega Valeria Frittelloni. “Per le utenze domestiche con un soggetto in quarantena o un malato Covid, l’ISS ha raccomandato di trattare i rifiuti alla pari di quelli provenienti dalle strutture sanitarie. Ha chiesto quindi di interrompere la raccolta differenziata per quelle utenze e ha raccomandato ai cittadini l’utilizzo del doppio o triplo sacchetto per la raccolta. Nello stesso tempo ha dato indicazioni circa la formazione degli operatori, che devono essere forniti di tutti i dispositivi di protezione individuale per proteggersi dal rischio contagio”.

Dopo la diffusione delle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, i gestori della raccolta urbana si sono però rivolti all’Ispra per avere istruzioni pratiche su come comportarsi. “Per prima cosa il documento redatto dall’Ispra stabilisce che, dove non ci siano utenze infettive, è indispensabile continuare la differenziata, sia per la sostenibilità ambientale sia per evitare di sovraccaricare il circuito degli indifferenziati. Per quanto riguarda i rifiuti urbani con rischio infettivo, sono da destinare prioritariamente all’incenerimento o laddove non sia possibile è necessario a impianti di trattamento per l’igienizzazione e la sterilizzazione, prima dell’invio in discarica”.

Ma come fanno i gestori e gli operatori a sapere chi è in quarantena e quali sono le utenze potenzialmente infettive? “Nella maggior parte dei casi – spiega Frittelloni - non è possibile una raccolta dedicata per i soggetti in quarantena, cioè i loro rifiuti finiscono comunque nel flusso dei rifiuti urbani, ma impacchettati in modo diverso. La scelta è comunque locale, visto che i sistemi di gestione delle regioni sono tutti diversi. Alcune regioni come la Toscana hanno previsto per le utenze in quarantena una raccolta dedicata con operatori specializzati, che ricevono indicazioni direttamente dalla Asl. Altre, come la Liguria, hanno invece classificato tutti i rifiuti urbani come infettivi. In Lombardia, soprattutto, nel primo periodo dell’emergenza, è stata interrotta la raccolta differenziata per tutte le utenze e i rifiuti sono stati inviati tutti a incenerimento. Ogni regione, insomma, ha valutato le sue problematiche e i mezzi a disposizione per far fronte alla situazione”.

Un sistema da rendere più elastico

Se la corretta gestione dei rifiuti è sempre fondamentale, in fase emergenziale è vitale non avere intoppi. “Ma questa emergenza, purtroppo, si è inserita in un sistema con troppe rigidità”, osserva Valeria Frittelloni. “Come Ispra abbiamo dunque redatto un documento trasmesso al Ministero per evidenziare le criticità riscontrate”. Criticità che riguardano soprattutto il sistema impiantistico: “Non consente alternative, abbiamo talmente pochi impianti e distribuiti in modo disomogeneo sul territorio nazionale che basta che qualcosa non funzioni per far implodere il sistema. Questo è un problema già in situazioni ordinarie: ci sono regioni come Lazio o Campania che ogni anno portano 600 o 700mila tonnellate di organico al nord, in Veneto soprattutto, perché non hanno impianti di compostaggio. Siamo entrati in fase di emergenza sanitaria in una condizione in cui molte regioni non riescono a chiudere il ciclo all’interno del proprio territorio. Per questo poi il sistema va in crisi, soprattutto in un momento in cui ci sono enormi problemi logistici ed è necessario limitare gli spostamenti”.
“Abbiamo bisogno che il sistema diventi più elastico – conclude – così da poter rispondere in modo resiliente a qualsiasi crisi”.