Lo strato di ozono terrestre è sulla buona strada per riprendersi entro quattro decenni. Ce lo dice il rapporto Scientific Assessment of Ozone Depletion: 2022 , presentato il 9 gennaio scorso durante il 103esimo meeting annuale dell’American Meteorological Society e realizzato in collaborazione con United Nations environment programme (Unep), National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) Usa, National Aeronautics and Space Administration (NASA) e Commissione europea.

Il report, pubblicato ogni quattro anni, ha lo scopo di monitorare i progressi e quindi l’efficacia del Protocollo di Montreal, l’accordo ambientale multilaterale che nel 1987 ha regolamentato il consumo e la produzione di quasi 100 sostanze chimiche prodotte dall'uomo. La riduzione complessiva ha portato al notevole recupero dello strato protettivo di ozono nella stratosfera superiore e alla riduzione dell'esposizione umana ai raggi ultravioletti (UV) nocivi del sole. Ma gli esperti, per la prima volta, mettono in guardia dagli impatti indesiderati sullo strato di ozono di nuove tecnologie come la geoingegneria.

Ecco quanto ci vorrà per il recupero totale dello strato di ozono

La scoperta di un buco nello strato di ozono – o meglio, l’assottigliamento sopra le regioni polari - è stata annunciata per la prima volta da tre scienziati del British Antarctic Survey, nel maggio 1985. Quattro anni dopo, entrava in vigore il Protocollo di Montreal, lo strumento operativo dell'UNEP, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, per l'attuazione della Convenzione di Vienna "a favore della protezione dell'ozono stratosferico", ad oggi primo trattato ratificato da tutti e i 197 Paesi membri Onu, Italia compresa.

I due trattati internazionali puntarono a ridurre la produzione e l'uso di quelle sostanze ad alto impatto ambientale, in particolare i gas CFC o clorofluorocarburi, massicciamente impiegati fino agli anni ’90
nel settore della refrigerazione (frigoriferi, condizionatori d’aria), nei pannelli e schiume isolanti, ma anche nei propellenti per qualsiasi prodotto spray o come agenti pulenti (settore aeronautico, spaziale, informatico). Secondo i dati presentati questa settimana, se le politiche attuali rimarranno in vigore, lo strato dovrebbe tornare ai valori del 1980 entro il 2040. Nell'Antartico, questo recupero è previsto entro il 2066 circa, mentre nell'Artico entro il 2045.

Se il buco dell’ozono si chiude, allora il Protocollo di Montreal funziona

Per Meg Seki, segretaria esecutiva del Segretariato per l’ozono dell’United Nations environment programme (Unep) “Che secondo l’ultimo rapporto quadriennale il recupero dell’ozono sia sulla buona strada è una notizia fantastica. L’impatto che il Protocollo di Montreal ha avuto sulla mitigazione dei cambiamenti climatici non può essere sottovalutato. Negli ultimi 35 anni, il Protocollo è diventato un vero campione per l’ambiente. Le valutazioni e le revisioni intraprese dal team di valutazione scientifica rimangono una componente vitale del lavoro del Protocollo che aiuta a informare i responsabili politici e decisionali”.

Secondo il rapporto, il Protocollo di Montreal ha infatti già portato benefici agli sforzi per mitigare il cambiamento climatico, contribuendo a evitare il riscaldamento globale di circa 0,5°C. Nel 2016, inoltre, un accordo aggiuntivo al Protocollo di Montreal, noto come Kigali Amendment, eviterà un ulteriore riscaldamento di 0,3-0,5°C entro il 2100. La misura si è resa necessaria per la riduzione graduale della produzione e del consumo di alcuni idrofluorocarburi (HFC), sostanze climalteranti ma non ozono lesive.

Quindi il Protocollo di Montreal è un esempio virtuoso di cooperazione? “Il protocollo di Montreal ci insegna due cose fondamentali. Innanzitutto, il fatto che le nostre azioni e le nostre abitudini, soprattutto se collettive, hanno sempre un impatto sull’ambiente, non necessariamente negativo come in questo caso.” dichiara a Materia Rinnovabile Serena Giacomin, climatologa e Presidente di Italian Climate Network. “Sembra banale, ma non lo è: troppo spesso si dimentica il principio di azione-reazione e non si valutano gli effetti dei nostri comportamenti. Dal punto di vista ambientale, ci troviamo di fronte a problemi come buco dell’ozono e riscaldamento globale perché ci siamo sviluppati in modo insostenibile, senza prima andare a calcolare o ignorando l’impatto delle nostre economie e società con gli strumenti che la scienza e la tecnologia ci mettono a disposizione.

Dobbiamo capire che il “come” ci comportiamo nei confronti dell'ambiente - in questo caso l'atmosfera - è determinante nel far sì che l'ambiente continui ad essere in salute e dunque ci metta a disposizione quei servizi ecosistemici necessari al nostro sviluppo economico e sociale e alla nostra salvaguardia, anche a livello di salute. In secondo luogo, il Protocollo di Montreal ci insegna che, nel momento in cui la comunità internazionale si mette d'accordo, mettendo a fuoco un problema e individuandone le soluzioni, si può fare qualcosa per cambiare, in meglio. Questo è sicuramente uno degli insegnamenti più grandi che ci può essere dato in questo momento, che possiamo definire di sconforto e di quasi completa inazione nei confronti un altro problema globale, quello del cambiamento climatico e del riscaldamento globale.”

Combattere il buco dell’ozono con la geoingegneria? L’Onu chiede cautela

Per la prima volta, gli esperti hanno esaminato i potenziali effetti sull'ozono derivanti dall'aggiunta intenzionale di aerosol nella stratosfera, nota come iniezione di aerosol stratosferici (SAI). Una vera e propria misura di geoingegneria climatica, nonché tecnologia potenzialmente capace di ridurre il global warming attraverso la riflessione della luce solare. Tuttavia, gli scienziati hanno avvertito che una "conseguenza non intenzionale" della SAI è che "potrebbe anche influenzare le temperature stratosferiche, la circolazione e i tassi di produzione e distruzione dell'ozono e il trasporto". Cautela, dunque.

“L’UNEP non boccia completamente queste soluzioni perché sono tante e molto diverse tra di loro. Non ci si può aspettare un ‘lasciapassare’ generico. E questo ci riporta in qualche modo al primo punto di cui abbiamo discusso: il principio di azione reazione. Per applicare la geoingegneria dovremmo essere davvero consapevoli e capaci di preventivare immediatamente le conseguenze della messa in atto di ogni singolo progetto geo-ingegneristico. Al contrario, è intuitivo accorgersi che queste soluzioni potrebbero trasformarsi in ulteriori problemi da dover risolvere”, continua Giacomin.

“Nel momento in cui, ad esempio, spariamo aerosol in atmosfera per aumentare la riflessione cercando di ristabilire l'equilibrio energetico climatico, sostanzialmente raffreddandolo, siamo sicuri che poi non ci siano degli effetti imprevisti? Non è tanto un problema etico, il problema è avere le capacità di capire gli effetti globali a cui si andrebbe incontro. Non è solo difficile, è proprio complesso. Il sistema climatico è fisicamente un sistema complesso, fatto di tanti sistemi intimamente legati tra loro, che interagiscono. Sollecitandolo dobbiamo aspettarci dei feedback non sempre lineari. Se oggi sappiamo che riducendo le emissioni di gas climalteranti si va a ridurre la quantità di quei gas serra che hanno capacità di immagazzinare calore in atmosfera riportandoci alle concentrazioni pre-rivoluzione industriale, non sappiamo invece cosa potrebbe succedere se sistematicamente immettessimo in atmosfera a livello globale qualcos'altro creando un ulteriore disequilibrio rispetto al clima terrestre che conosciamo.”

Image: Danist Soh (Unsplash)