Fast fashion, digitale e giovani spingono la crescita del mercato globale della moda del 6% annuo, ma solo il 3,5% del valore complessivo del mercato è circolare. È questo uno dei messaggi chiave contenuti nello studio Just Fashion Transition, presentato il 27 ottobre scorso dal think tank The European House – Ambrosetti in occasione del Venice Sustainable Fashion Forum. L’analisi, di respiro globale, ha valutato le performance economico-finanziarie di 2700 aziende della catena di fornitura, la sostenibilità di 167 aziende italiane e gli strumenti di gestione della sostenibilità delle 100 più grandi imprese europee. Quali saranno state le raccomandazioni rivolte alle istituzioni e agli attori chiave della filiera?
Il settore moda tra fast fashion e social commerce
Il mercato globale dell'abbigliamento è in continua crescita. Secondo le previsioni riportate nel report Just Fashion Transition, il fatturato del settore moda aumenterà del 5,9% annuo fino a circa 2000 miliardi di dollari entro il 2026. A sostenere questo incremento, in particolare, è lal cosiddetta fast fashion (+7,9% annuo), un segmento in cui primeggiano catene come Zara, Mango, H&M (o la cinese Shein) e che sembra piacere soprattutto ai giovani.
Contro ogni aspettativa, anche a causa della minore capacità di spesa, sarebbe infatti la Generazione Z, i nati dopo il 1998, a essere sempre più interessata nel momento dell’acquisto al prezzo (62% Gen Zers vs 53% totale) e meno a qualità (64% vs 71%) e sostenibilità (28% vs 24%) dei prodotti. Una tendenza che è sospinta anche da un altro fenomeno, quello del social commerce, che in Cina si stima raggiungerà il 14,3% delle vendite e-commerce già nel 2023. “Si comincia a comprare direttamente dai social network, da Instagram, anche grazie agli influencer, o comunque a chi ha una forte presenza online. Questo succede in particolare in Cina, che va molto più veloce degli Stati Uniti, che a loro volta vanno molto più veloci rispetto all’Europa. I comportamenti d’acquisto che vediamo qui oggi, non sono che una piccola nicchia a livello mondiale”, spiega a Materia Rinnovabile Carlo Cici, Partner e Head of Sustainability di The European House – Ambrosetti e coordinatore dello studio.
Moda circolare: a che punto siamo
Lo sviluppo tecnologico non si ferma solo ai social media. Grazie a modelli di business fortemente digitalizzati, integrati verticalmente e capaci di sfruttare le potenzialità dei big data, i cicli di produzione si sono drasticamente accorciati. Se negli anni ’90 si passava dalla selezione delle tendenze alla vendita in circa 9 mesi, nel 2020 in alcuni casi si è arrivati al tempo record di 3 giorni. “Andare sullo scaffale in tre giorni è cosa al limite dell’impossibile. Shein, ad esempio, grazie ai suoi sistemi di intelligenza artificiale è capace di vedere i modelli che circolano in rete e di produrli automaticamente” continua Cici.
In compenso, le pratiche di economia circolare del settore – e quindi rivendita, noleggio, riparazione e remaking – restano confinate al 3,5% del mercato globale, di cui oltre la metà è costituita da acquisti second-hand. A riguardo la Global Fashion Agenda stima un potenziale enorme per i modelli circolari, che a parità di tecnologia potrebbero arrivare a valere l’80% del mercato della moda. “C’è uno scarto enorme, teorico. Mi sembra che si giochi un po’ sulla narrazione. È vero, in quel 3,5% ci sono dei player abbastanza importanti, alcuni dei quali fatturano miliardi. Ciò dimostra che c’è un gruppo di persone che è veramente interessato a queste cose. Però al momento il cittadino consumatore non è particolarmente attivo su questi temi, neanche in fase d’acquisto”.
Stimare l’impatto ambientale della moda
Mancano inoltre dati univoci sugli impatti ambientali e sociali del settore moda. Oggi è possibile solo basarsi su stime che producono risultati molti diversi tra loro: ad esempio non si conosce il dato sulle emissioni climalteranti generate dal settore - che si attestano tra il 2% e l’8,1% delle emissioni globali. Così come il dato dei consumi idrici, dove la stima più alta è tre volte superiore alla più bassa (215 contro 79 miliardi di metri cubi), se poi si scende nel particolare per verificare il consumo necessario a produrre un paio di jeans, la differenza supera le cinque volte (20.000 contro 3.781 litri). In Europa, dove sono stati costruiti set consolidati, i dati ambientali sono molto più affidabili e dimostrano che il 75% delle esternalità negative è prodotto fuori dall’Unione europea.
C’è inoltre ancora poca attenzione alla biodiversità, come conferma il coordinatore dello studio. “Innanzitutto, la biodiversità è un tema che generalmente è lontano dalla nostra cultura. Capire che le api possono avere un impatto sul nostro Pil è una cosa che generalmente facciamo fatica ad afferrare. In secondo luogo, volendo dare una lettura un po’ maliziosa, tutto il comparto è molto focalizzato sulle emissioni di CO2 perché è un tema – certo non facile – ma più misurabile. La biodiversità è un aspetto molto più complesso, che però potrebbe avere un impatto molto più rilevante anche sugli aspetti economici della filiera, così come tutti gli aspetti sociali. Che sono molto poco considerati.”
Secondo le stime, sarebbero infatti tra 60 e 75 milioni i lavoratori che operano nel settore a livello globale, molti dei quali vivono in Paesi in via di sviluppo o in Paesi con economia di transizione, dove maggiori sono i rischi di disuguaglianze di genere, lavoro forzato e minorile ed esposizione a prodotti chimici.
Moda Made in Italy: l’importanza di fare rete
The European House - Ambrosetti ha condotto un’indagine sulla dimensione e la marginalità di oltre 2000 aziende italiane del settore, da cui risulta la prevalenza di imprese di piccola taglia dove circa la metà ha fatturati annui inferiori ai 5 milioni di euro e solo il 3% supera i 50 milioni. Dall’analisi si evince che la marginalità dei brand è superiore, ma più volatile, rispetto a quella delle imprese della filiera.
Inoltre, per la prima volta, è stata svolta una valutazione sulla sostenibilità di 167 aziende italiane del comparto da cui emerge che all’aumentare delle dimensioni cresce l’adozione di strumenti per la gestione, come il monitoraggio delle performance, la presenza di figure dedicate, l’ottenimento di certificazioni di processo e di prodotto. Da qui una delle sei raccomandazioni.
Oltre a puntare su educazione e sensibilizzazione e sull’adozione anticipata degli strumenti volontari e obbligatori che l’UE sta introducendo in tema sostenibilità, per il think tank sarebbe importante “fare squadra”. Se da un lato sarà in capo ai governi definire un'agenda annuale identificando le priorità, gli attori coinvolti e le principali linee orientando finanziamenti pubblici verso le PMI e cercando di favorire la partnership con le istituzioni finanziarie private, puntare sulle alleanze potrebbe essere cruciale: creare comunità professionali, oltre a superare le barriere al finanziamento, contribuirebbe infatti a diffondere buone pratiche e attività di advocacy.
La quarta raccomandazione punta invece a risolvere il problema della mancanza di dati omogenei e condivisi attraverso l’istituzione di un osservatorio permanente, realizzato in collaborazione con le associazioni di categoria e con le alleanze industriali, concordando metodologie di calcolo e avviando la raccolta dei dati su un set di dati minimi: salari minimi, consumo di acqua, uso di prodotti chimici, emissioni di gas serra, materie prime riciclabili.
Infine, si legge nel rapporto, la transizione sostenibile sarà facilitata se le imprese della filiera del lusso, presenti essenzialmente in Francia e in Italia, saranno capaci di fare sistema e di dettare l’agenda nei tavoli di lavoro europei e delle istituzioni internazionali. Senza dimenticare però la necessità di reinvestire quote fisse dei margini dei brand per favorire la scalabilità dei modelli di business circolari e la condivisione delle migliori pratiche nel settore.
Image: Alexander Kovacs (Unsplash)