Reportage fotografico a cura di Thomas Cristofoletti

 

Mappa a cura di: Riccardo Pravettoni 
Fonte mappa: WLE 2017. Dataset on the Dams of the Irrawaddy, Mekong, Red and Salween River Basins. Vientiane, Lao PDR: CGIAR Research Program on Water, Land and Ecosystems – Greater Mekong. wle-mekong.cgiar.org/maps

 

Di tutti gli elementi sulla Terra, l’acqua è la più preziosa e la più circolare, inesauribile fonte di vita e sostentamento. Dall’agricoltura all’industria, dall’igiene all’estrazione mineraria, dal saziare la sete al divertimento, l’acqua è il cuore della nostra vita. Ma cosa succede quando la gestione delle risorse idriche diventa partigiana, non sostenibile, invece di essere condivisa viene accaparrata dal più forte, sia uno stato, un’impresa o un settore dell’economia? In questo caso si verifica un fenomeno di water grabbing. Con l’espressione water grabbing, o “accaparramento dell’acqua”, ci si riferisce a situazioni in cui attori potenti sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi che vengono depredati: da bene comune liberamente accessibile l’acqua si trasforma in bene privato per cui bisogna negoziare ed essere disposti a pagare. L’antitesi dell’economia circolare. Per questo Materia Rinnovabile, in collaborazione con un gruppo di testate e con il sostegno del Centro europeo per il giornalismo ha realizzato una serie di reportage per raccontare le catastrofi che possono accadere quando l’acqua, come materia, cessa di essere un diritto. 

“Morirò annegata, sommersa dal fiume che ci ha dato la vita.” Je Srey Neang ha il suo destino scritto negli occhi. Trentadue primavere passate nel villaggio di Kbla Romes, lungo il Sesan, uno dei principali tributari del grande Mekong. Tre figli, il maschio partito con il marito dopo il divorzio. Lui ha accettato sei mila dollari per andarsene da qualche parte in città, per una vita di miseria, in cerca di lavoro in fabbrica. Il suo villaggio sarà sepolto dal bacino della diga cambogiana Lower Sesan II, sita a poche miglia dall’affluenza con il Mekong e costruita dai cinesi per fornire elettricità alla capitale Phnom Penh; un progetto voluto dalle élite dei due paesi, senza tenere conto degli impatti locali, con 5.000 persone forzate ad andarsene e 40.000 che seguiranno, quando il pesce inizierà a scarseggiare a causa dello sbarramento del corso fluviale.

“Io ho deciso di resistere. Non mi compreranno. Non mi piegheranno con le armi. E non mi muoverò finché sono viva.” La sua determinazione, mentre continua con violenza a zappare l’orto, è sottolineata dagli occhi duri, senza lacrime. Una sua vicina mostra delle foto, fatte con un cellulare, di uomini in nero che ogni settimana vengono per fare pressione affinché Je Srey se ne vada. “Questa è la natura che ci è stata data, è il nostro sostentamento. Non sono contraria alla diga, ma non deve distruggere la nostra vita per alimentare il televisore di qualcuno che vive a mille chilometri da qua. Quando l’acqua inizierà a salire rimarrò serena nella mia casa.”

 

 

Una storia comune quella di Je Srey. Nel bacino del Mekong, uno dei più contesi al mondo, da anni crescono le tensioni tra i paesi del Sudest asiatico per l’impiego delle acque per l’irrigazione e come fonte di energia idroelettrica. “Oltre 60 milioni di persone traggono sostegno da questo bacino”, spiega Tek Vannara, direttore esecutivo del Forum organizzazioni non governative cambogiano. “Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe ovunque che impatteranno su pesca, turismo, agricoltura. Le dighe saranno fonte d’instabilità e una persecuzione, in particolare, per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i propri territori, abbandonando i propri costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio.” 

In questi ultimi cinque anni il Sudest asiatico continentale si è tuffato in una corsa agli sbarramenti idroelettrici nel disperato tentativo di soddisfare la crescente domanda di elettricità, specie da parte delle economie più sviluppate, Thailandia, Vietnam e Cina. Il Dragone ha costruito sette impianti idroelettrici di grandi dimensioni nell’alto Mekong (conosciuto in cinese come Lancang) e, sebbene i piani dettagliati rimangano segreti, altri ventuno sono in programmazione. Nella parte meridionale del bacino, che interessa Myanmar, Laos, Cambogia, Thailandia e Vietnam, sono programmate undici dighe, la gran parte in Laos, uno dei paesi più poveri d’Asia, che aspira a diventare – con il sostegno d’investitori cinesi e thailandesi – la pila idroelettrica d’Asia, con un potenziale di produzione di 26 gigawatt, più della Francia. Già oggi, secondo l’Associazione internazionale dell’energia idroelettrica International Hydropower Association l’elettricità costituisce circa il 30% dell’export laotiano, con l’obiettivo di esportare oltre sette gigawatt alla Thailandia entro il 2020, cinque verso il Vietnam e persino 0,2 gigawatt da vendere alla nemica Cambogia.

 

 

Tre impianti sono in fase di completamento: la diga Don Sahong, la Xayaburi, e dall’estate 2017 potrebbero iniziare i lavori di pianificazione del colosso di Pak Beng, nel cuore dell’alto Mekong laotiano, nei luoghi dove Francis Ford Coppola ha collocato la base di Kurtz nel suo Apocalypse Now, e che oggi è una rinomata destinazione turistica. Pak Beng sarà un gigante da 912 MW che potrebbe produrre da solo 4.775 GWh l’anno di energia. “Al momento niente scavi ma spesso ci sono ingegneri e geometri a prendere misure e rilevamenti”, spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. La barca di tek, rifinita con gusto, è occupata da una decina di turisti francesi, che scattano foto della fitta giungla addensata intorno ai villaggi di etnia Khmu, che costellano il fiume nel tracciato da Luang Prabang a Huay Xai. “La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere sul Mekong diventeranno un ricordo”, continua Vilang. Secondo Pianporn Deetes di International Rivers, una delle organizzazioni di riferimento internazionale per la tutela dei fiumi, intervistata negli uffici di Bangkok, “circa 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga Pak Beng, e oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente”. 

Per i paesi rivieraschi il boom delle dighe è fonte di grattacapi. Da un lato thailandesi, cambogiani e vietnamiti potranno garantirsi maggiore sicurezza energetica. Ma dall’altro i piani laotiani, sostenuti economicamente dalla Cina sono fonte di preoccupazione dal punto di vista della sicurezza alimentare e geopolitica. Se oggi i paesi possono cooperare in casi di emergenza (come dimostrato dall’apertura delle riserve sul Mekong da parte della Cina, durante la siccità del marzo 2016), in futuro il controllo dei flussi d’acqua e dei sedimenti potrebbe diventare strumento di ricatto politico e fonte di tensione.

 

 

Secondo Ho Uy Liem, vicepresidente della Vietnam Union of Science and Technology Association, “le dighe danneggeranno in particolare il Delta del Mekong, in Vietnam, dove si produce circa la metà del riso, oltre il 70% del pesce e la quasi totalità della frutta del paese. Una minaccia alimentare incombe sulla regione”, sottolinea Liem, ricordando come dall’export alimentare vietnamita dipendano Filippine e Indonesia.

Per cercare di regolare le tensioni diplomatiche gli stati rivieraschi hanno creato vent’anni or sono una commissione, la Mekong River Commission (Mrc), con lo scopo di dare indicazioni sulla gestione transfrontaliera del fiume. “Va chiarito subito che noi siamo una commissione tecnica, e non politica, non possiamo prendere decisioni”, mette le mani avanti il presidente della Mrc, Pham Tuan Phan, mentre scruta l’orizzonte dalla finestra dell’ufficio nella capitale Vientiane. In lontananza si scorge il mercato lungo l’argine del Mekong e sull’altra sponda la confinante Thailandia.

“Noi riguardo alle dighe abbiamo fornito importanti indicazioni su come rendere più sostenibile la realizzazione, controllando la qualità dell’acqua e proponendo piani di sviluppo congiunti”, spiega in un incontro nella sede di Vientiane. “Noi facilitiamo i processi di consultazione, incontriamo tutte le parti, inclusa la Cina che è un osservatore, ma non prendiamo decisioni politiche. Questo spetta alla diplomazia.” Che a collaborare, nei fatti, sembra poco interessata. 

Il Laos, governato dall’impenetrabile e autoritario Bounnhang Vorachith, presidente del Partito rivoluzionario del popolo Lao, ha fatto delle dighe la sua politica di sviluppo, a costo di eliminare l’opposizione interna e gli eventuali ambientalisti, contrapposti all’edificazione. “Il Laos non è aperto ad alcuna discussione sul tema delle dighe. Chi parla spesso sparisce”, spiega un attivista che preferisce l’anonimato per tutelare il suo lavoro e la sua incolumità (numerosi, infatti, sono stati gli omicidi di ambientalisti, incluso l’assassinio del leader ecologista Chut Wutty nel 2012). In Cambogia, Hun Sen, primo ministro dal 1993 e capo del Partito popolare cambogiano, sostiene apertamente le critiche contro le dighe in Laos, ma reprime ogni commento sui progetti sul suolo patrio. La Thailandia è spaccata tra Bangkok, che necessita di energia pulita a basso costo per lo sviluppo dell’economia, e le comunità rivierasche, che hanno fatto causa alla compagnia elettrica nazionale thailandese, Egat (Energy Generating Authority of Thailand) per il sostegno alla diga Xayaburi temendo i forti impatti sulla pesca. Per il Vietnam la corsa all’idroelettrico asiatico è una sconfitta su ogni fronte. Poca elettricità per l’import, ridotte quantità di acqua dolce per l’approvvigionamento idrico, crollo della pescosità del fiume e il rischio che la diminuzione del regime nel Delta del Mekong possa favorire infiltrazioni saline e fenomeni di subsidenza, rendendo poco fertili le pianure alluvionali, paniere del paese.

 

 

Xayaburi, una diga sostenibile?

Milleduecento chilometri più a nord lungo il Mekong, tra strade montane inerpicate e tornanti a gomito – non esiste nemmeno un chilometro di autostrada in Laos – si arriva nella zona della diga Xayaburi, non lontana dall’incantevole perla del Mekong, Luang Prabang. Gli innumerevoli controlli rendono subito chiaro il livello di sicurezza intorno al progetto. “Niente giornalisti, niente visite”, affermano le guardie intimando di allontanarsi. Inversione di marcia, ritorno. Nel villaggio di Xayaburi nessuno vuole rispondere a domande. Del destino degli abitanti di Houay Souy, uno dei primi sgomberati dai costruttori e dal governo nessuno sa nulla. Gli sviluppatori del progetto da 3,8 miliardi di dollari – il gruppo d’ingegneria thailandese CH-Karnchang sostenuto da un gruppo di banche di Bangkok – contattati più volte, non hanno mai risposto alla richiesta per visitare il sito e rispondere ad alcune domande sulla sostenibilità della diga.

Il colosso da 820 metri di larghezza e 33 di altezza può essere visto solo da lontano. Con una capacità di produzione massima di 1.285 megawatt, è uno dei progetti che più di tutti preoccupa agricoltori, politici, ambientalisti e geologi, dato che sbarrerà completamente il Mekong in uno dei punti dove si raccoglie più acqua. Circa il 95% dell’elettricità prodotta (7.500 GWh annui) sarà acquistata dalla utility thailandese Egat, principale acquirente anche dalla centrale idroelettrica Don Sahong e Pak Beng.

 

 

“Uno dei principali impatti è la riduzione del carico di sedimenti, ricchi di nutrienti, che avrà ripercussioni su pesca e agricoltura delle comunità rivierasche e sui territori meridionali del Mekong” spiega Tek Vannara, del Forum Ong, durante una lunga intervista nel suo studio di Phnom Penh. A confermare la posizione delle organizzazioni non governative, Chris Barlow, un esperto di pesca dell’Australian Centre for International Agricultural Research (Aciar). “Quando queste dighe saranno complete l’impatto sulla pesca sarà immediato, in particolare sulla quantità di pesci disponibili”, precisa Barlow.

Posizioni che non condivide il presidente della Mekong River Commission, Pham Tuan Phan. “Gli ambientalisti hanno un approccio radicale e hanno deciso di non partecipare al processo. Xayaburi è un progetto avanzatissimo, che ha recepito le nostre richieste di mitigare gli impatti. Ci sono passaggi per i pesci, con tanto di ‘scale’ per permettere loro di risalire la corrente, che possono ospitare anche quelli più grandi come il pangasio gigante, lungo anche tre metri; ci sono gli scarichi per i sedimenti e le turbine sono state modificate per permettere il passaggio delle specie acquatiche”. CH-Karnchang si è avvalso del consulente finlandese Pöyry per la consulenza di realizzazione della diga al fine di implementare correttamente le richieste avanzate dalla Mekong River Commission (Mrc). In uno statement rilasciato da Knut Sierotzki, direttore sezione idroelettrico per l’Asia di Pöyry “l’impianto e le operazioni sono conformi agli standard internazionali, quelli richiesti dalla Mrc e alle leggi di Laos e Thailandia. Il Laos ha una delle legislazioni più all’avanguardia sugli impatti ambientali e sociali del Sudest asiatico!”.

Tuttavia lo stretto riserbo sul progetto, la mancanza di accessibilità e lo scetticismo degli ambientalisti sembrano contraddire le promesse. “Il progetto sarà disastroso e per scoprirlo basterà attendere l’inizio delle operazioni. Il Mekong sarà di fatto tagliato in due”, commenta tranchant Pianporn Deetes.

 

 

Don Sahong, il cimitero dei delfini 

Per 40.000 kip laotiani (4 euro) Suk Lang porta i turisti in mezzo al Mekong per avvistare il famoso delfino dell’Irrawaddy, un mammifero di cui rimangono circa una cinquantina di esemplari in tutto il mondo. La sua barca leva le ancore dal villaggio cambogiano di Preah Rumkel, nella provincia di Stung Treng. Poco meno di un chilometro e la barca s’arresta, appena prima di entrare in territorio laotiano. I militari osservano distrattamente in lontananza. Un’increspatura d’acqua e appare il dorso luccicante di un maschio. Poi un altro mostra la testa smussata, dal colore grigio chiaro. E infine un terzo. “Sono tutti quelli rimasti, trovano rifugio in questa pozza dove sanno che nessuno li tocca.” Suk, 62 anni, secco e magro nell’uniforme troppo abbondante, è stato incaricato dal consiglio provinciale di sorvegliare gli animali, per evitare che i turisti li disturbino o che vengano cacciati dai bracconieri. Il suo nemico ora però è la diga Don Sahong, iniziata nel 2015 dalla compagnia malese MegaFirst e prossima alla conclusione. “Sentite i rumori? È a meno di un chilometro da qua”, dice puntando il dito verso il cielo plumbeo settentrionale.

I delfini rischiano di scomparire per sempre. E così i tanti ecoturisti che vengono in pellegrinaggio a vederli nella cornice pittoresca di Kratie, dove il Mekong spuma e biancheggia tra le rapide. “Turismo significa sopravvivenza per 600 famiglie”, commenta Suk sistemandosi la casacca militare, per sottolineare l’autorevolezza della sua opinione. Ogni tanto le associazioni ambientaliste vengono qua a protestare. Striscioni, slogan, canti, dolcetti al miele da distribuire ai turisti. Ma dall’altra parte tutto tace. Il Laos ignora ogni richiesta di modificare il permesso. La compagnia costruttrice anche in questo caso non permette di avvicinarsi. Per vedere cosa sta avvenendo dobbiamo lanciare un drone dal confine, evitando i militari, per ottenere in esclusiva alcune immagini. 

“Se per il delfino dell’Irrawaddy non ci sono speranze – entro breve andrà estinto – per gli abitanti il vero problema sono i pesci che costituiscono la risorsa primaria di sopravvivenza nelle numerose comunità”, spiega Suk. Un pericolo sottolineato più volte dagli ambientalisti. Come Chhith Sam Ath, direttore Wwf Cambogia che richiama i numerosi report scientifici e analisi d’impatto che “mostrano chiaramente che la diga farà danni incalcolabili sulla migrazione dei pesci, andando a colpire la sicurezza alimentare di tantissimi pescatori a sud della diga”. Un report della Mekong River Commission pubblicato nel 2015 ha stabilito che la realizzazione di tutte e undici le dighe previste potrebbe spazzare via metà dei pesci presenti nel fiume, in particolare quelli di grandi dimensioni che potrebbero estinguersi. Centinaia di migliaia di abitanti del fiume perderebbero la pesca, sia come fonte di sostentamento alimentare sia di occupazione. I danni sullo sviluppo e la sicurezza sociale nel paese sarebbero incalcolabili.

 

 

Mekong 2100

Il livello del Mekong è al minimo storico, il più basso dall’inizio delle misurazioni cento anni or sono. La stagione secca 2017 si annuncia ancora più severa di quella dell’anno precedente. Eppure questo reportage, costato oltre un mese di lavoro sul campo, non ha trovato nessuna evidenza che le dighe verranno né fermate ne modificate, come dimostra l’annuncio recente di iniziare a breve i lavori della diga Pak Beng in Laos. Sebbene il governo di Bounnhang Vorachith ha dimostrato di voler includere alcuni elementi di sostenibilità delle dighe laotiane, a oggi manca uno studio complessivo sull’impatto di tutte e 11 le dighe valutato insieme alle quasi 28 nel settore cinese del Mekong, mentre tutte le Ong intervistate condannano le modifiche fatte alle dighe in costruzione come “insufficienti e non basate su solida ricerca” oltre che “una condanna per molte popolazioni indigene rivierasche”.

A questo vanno aggiunti alcuni fattori esogeni, come gli impatti del cambiamento climatico che, causando lo scioglimento dei ghiacciai del plateau tibetano e facendo crescere l’intensità del regime pluviale – sostiene l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – aumenteranno le fasi di inondazione nella stagione umida e diminuirà la disponibilità d’acqua nella stagione secca, acuendo le tensioni legate alla richiesta di prelievo idrico. 

Un ulteriore fattore è l’isolazionismo di molti governi della regione dalla comunità internazionale. Secondo Rémy Kinna, analista di Transboundary Water Law Global Consulting “a oggi il Vietnam è l’unico stato ad aver ratificato la Convenzione sui corpi fluviali delle Nazioni Unite, un meccanismo giuridico globale per facilitare la gestione dei fiumi e dei laghi transfrontalieri in maniera equa e sostenibile. 

L’assenza di un quadro comune ha reso gli stati poco propensi a negoziare politicamente, lasciando in mano alla Mekong River Commission le questioni tecniche e analitiche, ma senza alcun potere decisionale comune.

 

 

La sorte della regione rimane incerta. “Le future crisi idriche minacciano di rallentare il settore chiave per alleviare la povertà: l’agricoltura”, spiega Brahma Chellaney, analista geopolitico e autore del libro Water: Asia’s new Battleground. “L’acqua è sempre di più un fattore determinante per comprendere se gli stati vanno verso uno sviluppo cooperativo o verso una competizione deleteria”. Per Chellaney l’influenza maggiore la possiede la Cina giacché controlla il plateau tibetano, principale risorsa dei fiumi d’Asia, Brahmaputra e Gange, e che sostiene lo sviluppo idroelettrico del Laos . “Se questo nuovo regime del Mekong porterà a emergenze idriche – come si è intravisto negli anni passati – ciò intensificherà le tensioni tra stati, rallentando lo sviluppo, mettendo a repentaglio la sicurezza alimentare e innescando migrazioni di massa dalle aree più colpite. La pace asiatica è a rischio, dunque è imperativo investire in cooperazione istituzionale sull’acqua rafforzando il lavoro sulle risorse idriche transfrontaliere”.

Intanto Je Sre siede nel suo villaggio, zappando la terra in attesa che l’acqua inizi a salire. I vicini fumano sulla scala, mentre un padre versa acqua in testa alla figlia, con fare cerimoniale. Fa capolino il monaco buddista che cura la pagoda locale. Pol Kong, si presenta. Guarda in lontananza il fiume e scuote la testa. “I costruttori della diga hanno già realizzato un nuovo tempio per ingraziarsi il Buddha. Ma il buddismo insegna che chi costruisce male, nella prossima vita nascerà male. Chi toglie l’acqua ai pesci, nella prossima vita sarà un pesce senz’acqua.” 

 

 

 

Watergrabbing è un progetto condiviso tra diverse piattaforme media, supportato da EJC European Journalism Center (ejc.net), IDR Grant (journalismgrants.org) e CapHolding (www.gruppocap.it)

International Rivers, www.internationalrivers.org

Mekong River Commission (Mrc), www.mrcmekong.org

UN Watercourses Convention, www.unwatercourses convention.org

Tutte le immagini: ©Thomas Cristofoletti