Cosa succede quando si lavora in un ambiente dove non esistono approvvigionamenti di materia, l’unica risorsa sono gli scarti, manca ossigeno, le condizioni esterne sono estreme e l’unica energia è quella delle stelle? Semplice, si usa la risorsa che l’uomo ha sempre dimostrato di possedere quasi illimitatamente. L’ingegno. E se questo ambiente è lo spazio, allora la sfida è una di quelle epocali. La pellicola Sopravvissuto – The Martian, regia di Ridley Scott, racconta la grande sfida con cui gli ingegneri dell’industria spaziale si devono confrontare ogni giorno quando pianificano viaggi nello spazio, stazioni orbitanti, centri di ricerca nelle profondità del cosmo. O quando, addirittura, iniziano a ideare future colonie su Marte, dove un giorno umani potrebbero abitare per continuare la conquista dello spazio, esplorandolo alla ricerca di nuova materia o addirittura per offrire vacanze “dell’altro mondo”. Certo è che la space economy non è solo un settore economico fatto di vettori, Rov (Remotely Operated Vehicle, veicoli a comando remoto, ndr) e nuovi satelliti. È anche una grande opportunità per ideare tecnologie del futuro che possano sostenere un pianeta malato, che ha a disposizione sempre meno materie prime e ha sempre più la necessità di sfruttare fonti energetiche rinnovabili e di promuovere l’efficienza. 

Materia Rinnovabile inaugura una serie di articoli per capire in che direzione questi investimenti stanno andando e quali tecnologie cutting-edge potranno magari un giorno entrare nelle nostre case o far parte delle filiere produttive globali. Partendo dall’Italia, che in Europa è uno dei player del settore space economy su cui il governo ha ritenuto investire, grazie a un finanziamento di 350 milioni di euro richiesti al Cipe sul fondo sviluppo e coesione per un piano di sviluppo italiano. Un settore “di eccellenza per il sistema produttivo italiano”, secondo le parole del ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda. È veramente così? Ne abbiamo parlato con il presidente dell’Agenzia spaziale italiana, Roberto Battiston, una delle menti più visionarie del panorama, che guarda a Marte e oltre.

 

Per molti space economy è un concetto “alieno”, se si concede il gioco di parole.

“La space economy va considerata da due punti di vista: uno implica il passaggio dal considerare l’attività nello spazio soprattutto per la componente esplorativa tecnologica, legata all’aumento della conoscenza e della capacità d’indagine dell’uomo, a una visione in cui lo spazio è un ambito di attività economica che produce ricchezza. Oggi il settore spaziale ha un fatturato globale di circa 300 miliardi di euro all’anno, di cui il 70-85% è legato alle telecomunicazioni. Questa è già economia di mercato. Ma la novità di questi ultimi anni riguarda la crescente quantità di dati che lo spazio riesce a fornirci riguardanti la Terra, che si aggiungono allo scambio di dati sulla telecomunicazione. In altri termini, si sta producendo una quantità di dati di origine spaziale, che si sta connettendo con la new economy delle dot.com sempre più legata ai servizi e alla gestione delle reti.”

 

C’è una componente tecnologica che richiama la green economy. Tante innovazioni adoperate nello spazio sono considerate la chiave per un futuro dove il recupero e la circolarità della materia sono fondamentali. È così? 

“Ci sono due aspetti importanti. Osservando la Terra dallo spazio, una delle prime cose che balza agli occhi è rappresentata proprio dai processi meteorologici e – soprattutto – climatici. L’osservazione spaziale ci aiuta a comprendere meglio quello che il nostro pianeta sta vivendo, la sua evoluzione climatica, consentendoci di verificare gli effetti dei processi, delle attività di contenimento e di miglioramento dell’impatto ambientale messi in atto dai vari paesi. È un particolare capitolo della space economy e dell’utilizzo del dato spaziale. Poi c’è un secondo aspetto. Nello spazio le risorse a disposizione sono limitatissime: abbiamo l’energia solare, ma non abbiamo altri materiali oltre a quelli che ci portiamo. La sfida, quindi, è trasformare l’energia in cibo, in propulsione per spostarci rapidamente da un posto all’altro, in capacità di comunicare e quant’altro. Pensiamo a quello che avviene nella stazione spaziale internazionale, dove abbiamo uomini che vivono continuativamente ormai da 15 anni: la sfida è ottimizzare le risorse, sfruttare i materiali disponibili e l’energia che arriva dal Sole. Teniamo presente che anche sulla Terra le materie prime che abbiamo sono quelle che il nostro pianeta già possiede, non le possiamo aggiungere.”

 

Dunque, anche la Terra è un sistema limitato come se fosse una navicella spaziale, solo molto più grande.

“Sì, assolutamente. L’energia è solo quella del Sole, perché anche l’energia di gas e petrolio di fatto è un’energia solare accumulata nel corso di milioni di anni. La Terra è un sistema chiuso, molto simile a quello della stazione spaziale. Naturalmente i numeri sono diversi: 7 miliardi di persone vivono sul nostro pianeta, solo 9 persone sulla stazione spaziale. Nello spazio il principio del sistema chiuso è ancora più evidente: l’acqua viene recuperata dalle urine e dal sudore praticamente al 95%, in un continuo ciclo di utilizzo. Oggi gettiamo in atmosfera i rifiuti biologici per farli bruciare, ma se avessimo una fattoria nella stazione spaziale – abbiamo già provato a coltivare l’insalata e i fiori e ci stiamo attrezzando per i pomodori – potremmo riutilizzarli in un circuito che potrebbe sfruttare e reimpiegare quasi la totalità della materia portata nello spazio, usando l’energia solare come elemento di trasformazione. Quindi è un sistema fantastico per mettere alla prova nel modo più avanzato il riutilizzo estremo delle risorse primarie.”

 

Cometa 67P/C-G – ©ESA/Rosetta/OSIRIS/NavCam – CC BY-SA IGO 3.0

 

 L’Italia come si posiziona nella space economy? Siamo leader o follower?

“Nel settore spaziale siamo una potenza internazionale: il sesto paese a livello globale per volume di attività spaziali, il terzo in Europa, dopo Francia e Germania. E abbiamo una tradizione di 50 anni che si estende su tutta la filiera. Dai lanciatori, ricordiamo i lanci del San Marco a Malindi col generale Broglio negli anni ’60, fino ai contributi importantissimi forniti alla stazione spaziale internazionale, le cui infrastrutture abitabili sono state prodotte a Torino. Ricordiamo la costellazione Radar Cosmo-Skymed che è unica nel mondo e che permette di monitorare la Terra 24 ore su 24, giorno e notte perché essendo radar vede attraverso le nuvole e funziona anche al buio. Abbiamo una realtà di competenze straordinarie che cerchiamo, grazie al lavoro dell’Agenzia spaziale italiana, di mantenere e far crescere. Oggi l’industria spaziale nazionale dà lavoro a 6.500 addetti e ha un fatturato di 1,7 miliardi. Ora la sfida è quella di aggredire mercati esterni: molte di queste tecnologie, infatti, sono sul mercato.” 

 

Quanto potenziale di crescita prevedete si possa avere?

“In linea di principio non c’è un limite vero perché dipende dalla competitività che riusciamo a mantenere nel sistema. Dalla space economy spesso nascono prodotti unici oppure competizioni tra un paio di aziende. Per esempio il Vega, un lanciatore (un razzo, ndr) a principale produzione italiana che attualmente viene impiegato da due a tre volte all’anno dall’Esa. Noi crediamo che si potrebbe utilizzare in un mercato due-tre volte superiore, se fosse opportunamente inserito negli accordi internazionali o venduto anche ad altri paesi non europei. Il potenziale di crescita è almeno del 100%: dipende da quanto il sistema Italia, il governo che investe in industrie, pianifichi questo modello di sviluppo.”

 

Più o meno quanti brevetti nati nel mondo della space economy sono poi diventati prodotti di distribuzione industriale?

“Troppo pochi. L’Italia non ha un’abitudine a produrre brevetti, né a livello dell’università, né a livello industriale. Non è nel nostro Dna: a livello di università e centri di ricerca i numeri sono assolutamente trascurabili, poche unità. A livello industriale siamo messi un po’ meglio, ma non abbiamo la strategia sistematica di brevettazione che hanno molto spesso i paesi del nord, per non parlare degli Usa. Detto questo, il modo con cui lo spazio evolve non prevede quasi mai di andare a comprare i brevetti di altre imprese. Piuttosto si fanno accordi in cui si dividono le attività, si creano joint venture, favorendo lo sviluppo di collaborazioni. Va ricordato che tutto ciò è facilitato da un forte contributo di finanziamenti pubblici, sia a livello nazionale sia internazionale, sia in Italia sia negli Stati Uniti e in Russia.”

 

Tracking station dell’ESA a Malargüe (Buenos Aires) – ©ESA/U. Kugel

 

Nuove joint venture raccontano l’aumento di partnership private: pensiamo al progetto Lavazza nello spazio, agli investimenti di Virgin Galactic. Che ruolo giocheranno?

“Pensiamo a cosa accade in America dove i privati della new economy basata sul web e sui servizi stanno facendo in prima persona attività spaziale per potenziare il proprio business basato su temi non spaziali. Con l’emergere di questi partenariati produrre brevetti diventerà una strategia sempre più importante.”

 

L’Italia eccelle nella green economy, con un grande know-how e un forte interesse verso l’economia circolare. Potrebbero le tecnologie spaziali fare la differenza nel campo delle energie rinnovabili, nel recupero di materia, riciclo, riuso e nello studio di nuovi materiali? Servirebbe un tavolo di lavoro pubblico-privato tra il mondo dell’industria spaziale e il mondo dell’industria green?

“Secondo me sì. Come Agenzia spaziale italiana stiamo cercando di potenziare il processo di trasferimento tecnologico, sia ricerca pura sia prototipazione industriale, ad altri settori commerciali. Negli ultimi mesi abbiamo messo in piedi a Roma, assieme al Consorzio Hypatia, il Ket-Lab, ‘Key Enabling Technologies Laboratory’. Stiamo già cominciando a fare dei prodotti tesi alla commercializzazione di tecnologie nate dalla ricerca aerospaziale. Ecco alcuni esempi. Le celle solari ad altissima efficienza: i pannelli solari che dobbiamo realizzare possono arrivare al 60% del rendimento, mentre quelli che oggi usiamo sui nostri tetti arrivano al 15-18%. Attualmente costano molto ma, come sempre accade, una volta che la tecnologia sarà sviluppata si può pensare a processi di produzione in grande scala che abbassano i costi.”

 

Riguardo all’acqua quali invenzioni sono in progress?

“Nella stazione spaziale – come dicevo – l’acqua viene recuperata al 95% dal sudore e dalle urine. Ma quando si è su un pianeta, anche fosse solo la Luna, dobbiamo avere – letteralmente – la capacità di estrarre l’acqua dai sassi. L’acqua, infatti, spesso è legata chimicamente in quantità molto piccole a tutta una serie di molecole presenti sulla superficie dei pianeti: per poterla utilizzare occorre sviluppare delle tecniche alle quali stando sulla Terra non si pensa nemmeno, proprio perché l’acqua è abbondante.” 

 

Siti di atterraggio della cometa 67P/C-G – ©ESA/Rosetta/OSIRIS

 

Dalla navicella spaziale a casa? 

“Assolutamente sì. Tutti i filtri possibili e immaginabili: per ricavare acqua potabile da quella sporca, per produrre ossigeno da un’atmosfera piena di CO2. Tutto ciò è materia di ricerca e sviluppo, anche in Italia.”

 

Quali sono i cluster di produzione della space economy?

“Torino, Milano dove c’è Ohb che è una azienda importante, il gruppo Leonardo, la EX nella zona milanese, il cluster toscano a Campi Bisenzio, il polo centrale del Lazio, quello abruzzese a L’Aquila, il Cira, il comparto aerospaziale campano. Sono soprattutto reti d’imprese.” 

 

Qual è la tecnologia più curiosa – e italianissima – che avete testato? 

“Direi la macchinetta del caffè progettata da Lavazza in grado di fare l’espresso in assenza di gravità: più una curiosità di tipo mediatico ma che ha dato molta visibilità al settore spaziale. È stata una prima volta: abbiamo usato in modo intelligente il brand dello spazio, della Stazione spaziale internazionale e le competenze nazionali per sostenere un processo che poi alla fine darà un beneficio diretto di carattere economico. Ma la space economy è appena iniziata, sarà un grande viaggio attraverso il cosmo, anche per salvare il nostro pianeta.” 

 

 

Key Enabling Technologies Laboratory, ketlab.it

Immagine in alto: Temple sul cratere Shackleton (Luna) – ©Jorge Mañes Rubio. Spatial design & visualisation in collaborazione con DITISHOE ditishoe.com