Pierroberto Folgiero – amministratore delegato di NextChem dal 2019 e del Gruppo Maire Tecnimont dal 2012 – delinea la visione di NextChem nel panorama europeo e italiano delle rinnovabili. Nell’era della transizione energetica, che ruolo giocano idrogeno e biocarburanti? E soprattutto, come intende posizionarsi la società italiana, colosso della chimica mondiale?

PierrobertoFolgiero NextChem

Quale è la visione industriale a lungo termine di NextChem?
Sul lungo periodo NextChem punta alla decarbonizzazione dell’industria dei derivati degli idrocarburi, attraverso la produzione di chemicals – tutti quei prodotti che derivano dalla lavorazione degli idrocarburi, ma che non sono carburanti – a partire da feedstock non fossili. Puntiamo, quindi, alla decarbonizzazione a monte della produzione, e non solo alla decarbonizzazione del processo produttivo stesso. La chimica si basa su due o tre building block che, combinati tra loro, possono originare una quantità infinita di molecole, capaci di creare qualsiasi prodotto. Oggi i building block derivano dagli idrocarburi, ma nella nostra visione decarbonizzare significa anche trovare strade alternative per crearli, adattando le filiere già esistenti e trasformandole, in modo da avere sempre la stessa orchestra, ma che suona una sinfonia diversa. E con NextChem ambiamo ad esserne i direttori. Grazie alla nostra esperienza pluridecennale e alle capacità trasversali di ogni nostra company, possiamo dialogare con una serie di imprese e creare nuove sinergie. Oltre a promuovere nuove tecnologie verdi, proponiamo un modo concreto per arrivare allo scopo a cui, seppur nel proprio ambito, punta ogni impresa. Il coordinamento nella produzione di chemicals verdi è fondamentale, in quanto il tasso di imprenditorialità è molto elevato e, di conseguenza, lo sono anche gli investimenti. Avere un pool di aziende in sinergia, non solo va a ridurre il capitale che ogni impresa dovrebbe versare – sia equity che debito –, ma permette anche di minimizzare il rischio e produrre chemicals competitivi nel prezzo.

Quindi, sinergie industriali a cui dovranno corrispondere anche nuove sinergie finanziarie. Nel 2020 è ormai chiaro che c’è una trasformazione nel mondo finanziario: i fondi, europei e non, non sono più limitati al mondo bancario.
I capitali verdi ci sono, ma è difficile dare sfogo a questa liquidità perché mancano progetti cantierabili su scala industriale. In sostanza, manca un ponte tra la finanza e l’industria: da una parte abbiamo la finanza che bandisce gli investimenti nel settore fossile, ma che non riesce a concretizzare gli investimenti verdi, e dall’altro l’industria che, per dare vita agli investimenti della finanza verde, deve convertire la produzione e costruire nuovi impianti.
Noi oggi abbiamo tecnologie mature, cantierabili anche su scala industriale. Se possiamo definire i progetti come “first of a kind”, in realtà le tecnologie che vi sono alla bas
e sono già validate. NextChem può essere il ponte tra finanza ed industria, e può esserlo in virtù del fatto che la chimica e la trasformazione della materia sono il nostro core business da decenni. Sappiamo riconoscere il potenziale di una tecnologia e, se ci investiamo per primi una parte di equity, trovare altri partner industriali risulta meno complesso.

Come si finanzia la fase sperimentale ad alto rischio? Si usano i proventi dei grossi progetti?
È utile fare una precisazione: se la tecnologia è ancora nella sua prima fase sperimentale, non è pronta per essere convertita nel “first of a kind”. Per noi, innovazione non significa necessariamente scoprire qualcosa di nuovo, ma unire processi già noti, mai stati uniti in precedenza, e creare così un’innovazione sinergica: questa nuova concezione di innovazione è stata definita da qualcuno “nouvelle technology”. Significa comunicare con le imprese e fare sì che comunichino tra loro e ri-pensare i termini di un nuovo processo. Quindi mentre le tecnologie sono già validate e provate, l’innovazione dal nostro punto di vista sta nel metterle a sistema. Sul piano pratico, si tratta di un rischio tecnologico che come NextChem ci assumiamo nel momento in cui investiamo in prima persona nell’equity, cerchiamo altri investitori e partner industriali interessati ad entrare nel capitale e supportiamo il reperimento del debito.

Parliamo di biofuels: come si può riassumere la vostra strategia?
Nel panorama dei biocarburanti la sfida è andare a sostituire il feedstock, cioè la risorsa utilizzata come input del processo in sostituzione degli idrocarburi. Ad oggi, possiamo raggiungere questo obiettivo attraverso tre diverse tipologie di chimica. La chimica circolare, quella fruibile già da oggi, permette di recuperare carbonio e idrogeno usando i rifiuti come feedstock. La biochimica che attinge dalle biomasse e sfrutta il potenziale di trasformazione dei microorganismi. Infine, l’elettrochimica produce idrogeno tramite l’elettrolisi alimentata con energia rinnovabile, che, reagendo con la CO2, crea diverse molecole combustibili.
Nei
biocarburanti di prima generazione il feedstock era il prodotto dell’agricoltura. Ma l’utilizzo di colture agricole – ivi incluso la mono coltura dell’olio di palma per la produzione di diesel – fece nascere la controversia “food vs fuel”, in quanto le terre agricole impiegate nella produzione di colture energetiche sottraevano terreni alla produzione del cibo. I biofuels di seconda generazione, invece, usano solamente gli scarti dell’agricoltura, che non hanno alcun tipo di incidenza sul mercato alimentare.
Oggi con biofuels si intende il
diesel rinnovabile o il bioetanolo. Uno dei business di NextChem si concentra sui biofuels e con le nostre tecnologie riusciamo a produrre sia diesel rinnovabile che bioetanolo.
Nello studio di fattibilità per la costruzione di un nuovo impianto, prima individuiamo il feedstock e poi costruiamo l’impianto in loco, con un approccio di decentralizzazione e regionalizzazione, e di conseguenza, prevediamo lo sviluppo di più impianti, ma di dimensioni ridotte.

Quali sono gli ostacoli con cui dovete confrontarvi?
Il 95% del nostro business è all’estero. È un dato che sottintende quanto in Italia, dove le tempistiche per l’apertura e la messa in sicurezza di un impianto possono richiedere fino a dieci anni, non si siano realizzate infrastrutture energetiche negli ultimi anni. I principali ostacoli che si dovranno fronteggiare sono di natura normativa e comunicativa. In primis, sono necessarie le autorizzazioni accelerate dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione. In secondo luogo, servirà un dialogo dinamico e trasparente con le realtà locali, di fondamentale importanza per capire le opinioni contrarie alla realizzazione degli impianti e per contrastare la sindrome NIMBY. È diventato necessario, quindi, instaurare canali comunicativi che coinvolgano le istituzioni, centrali e regionali. Un altro scoglio riguarda l’efficace trasmissione e spiegazione alle amministrazioni – che in ultimo dovranno approvare il progetto – delle nuove tecnologie. Nella nostra esperienza ci siamo resi contro che esiste un gap tra ciò che l’industria è pronta a implementare e ciò che la pubblica amministrazione è in grado di recepire.
Dovremmo poter contare su una classe amministrativa molto ricettiva, che conosca le esigenze del territorio e che sia pronta a garantirne il rispetto, attraverso prescrizioni puntuali, in armonia con le priorità ambientali, tra cui in primi
s la decarbonizzazione dei processi produttivi in ottica circolare.

Idrogeno: anche in Italia gli interessi governativi si sono sbloccati. Quale è lo scenario che prevedete?
Produrre idrogeno verde oggi costa il quintuplo rispetto all’idrogeno tradizionale.
Nel breve termine la sfida che ci attende è prima di tutto tecnologica. Per chiudere il gap in termini di costi è essenziale costruire elettrolizzatori di dimensioni maggiori e
ripensare il processo di elettrolisi per evolverne la tecnologia.
Guardando all’Italia e all’Europa, sicuramente l’idrogeno rappresenta una valida alternativa sia per quanto riguarda la mobilità sia in applicazioni industriali. Il primo obiettivo resta la
decarbonizzazione della generazione elettrica, perché per produrre idrogeno tramite elettrolisi serve elettricità rinnovabile. L’obiettivo di lungo termine, oltre che per la mobilità, è usare l’idrogeno come building block della chimica – insieme alla CO2 biogenica – e ripensare quest’ultima in un’ottica elettrochimica.
Nella
transizione da idrogeno grigio a verde, l’idrogeno blu gioca un ruolo chiave poiché viene prodotto a partire dal gas naturale tramite il sequestro e lo stoccaggio di CO2. A fronte di un forte incremento della domanda mondiale di idrogeno e in conseguenza delle politiche dei governi a sostegno, le Oil Company ricorreranno prima di tutto all’idrogeno blu, che è prodotto da gas e ha un costo competitivo, perché è già realizzabile oggi e rappresenta un ottimo trampolino di lancio per la transizione energetica. Noi stiamo promuovendo anche l’idrogeno circolare ricavato dai rifiuti plastici non riciclabili che costa come l’idrogeno blu ma fa risparmiare molte emissioni di CO2. In futuro sarà l’idrogeno verde a prendere sempre più piede.