La desertificazione, complici sfruttamento del suolo e cambiamento climatico, è oggi una minaccia crescente anche per l’Europa. Che non sta facendo abbastanza per prevenirla. Manca una strategia coordinata, ma la nuova Politica Agricola Comune potrebbe giocare un ruolo fondamentale.
Aridità, siccità, perdita di fertilità, improduttività del terreno, desertificazione. Sono tutti concetti appartenenti a un’area semantica che gli europei sono abituati a collocare altrove, lontana nel tempo e nello spazio: in Africa, in Centro America, in un’altra era geologica. Oggi, tuttavia, la desertificazione è un problema che riguarda da vicino anche il Vecchio Continente.
Agricoltura intensiva, deforestazione, inquinamento industriale, sfruttamento minerario, cementificazione, a cui si aggiungono gli effetti montanti del cambiamento climatico, stanno portando diverse aree dell’Europa meridionale sull’orlo di una crisi di suolo. Quel che è peggio, si tratta di una crisi sottovalutata, almeno dalle istituzioni europee. Tanto che è dovuta intervenire la Corte dei Conti, con un rapporto speciale pubblicato a fine 2018, a bacchettare la mancanza da parte dell’Unione Europea di strategie coerenti e coordinate per affrontare quella che potrebbe diventare un’emergenza.
Definire la desertificazione
Per parlare di desertificazione, bisogna innanzitutto intendersi sulle definizioni. “Fino a qualche anno fa si associava il termine all’avanzata del deserto, come accade ad esempio per il Sahara e la striscia del Sahel”, spiega il pedologo Carmelo Dazzi, presidente della European Society for Soil Conservation. “Oggi ci si riferisce a quel fenomeno con il termine ‘desertizzazione’, mentre la parola ‘desertificazione’ è passata a indicare un problema più ampio, che riguarda ambienti diversi in tutto il mondo, compreso il bacino del Mediterraneo”.
La definizione ufficiale è diventata dunque quella fornita dall’UNCCD (Convenzione delle Nazioni Unite per Combattere la Desertificazione): “il degrado del suolo in aree aride, semiaride e secche subumide in conseguenza di svariati fattori, tra cui le variazioni climatiche e le attività umane”. Le aree suddette coprono oltre il 40% della superficie terrestre e sono la casa di circa un terzo della popolazione mondiale: il fatto che sia a rischio la loro capacità di sostenere la vita è decisamente un grosso problema.
Quanto è grande il rischio e quale sia la soglia oltre la quale il suolo perde la sua capacità produttiva è un’altra questione su cui non è facile mettersi d’accordo. Le tipologie di suolo si possono classificare in base a indici di aridità. Quello adottato dall’UNEP (UN Environment Programme) definisce l’aridità di un territorio come il rapporto fra le precipitazioni medie annue (P) e l’evapotraspirazione media potenziale (ETp): P/ETp. Nel processo di desertificazione ci sono dunque tre soglie critiche che segnano l’inizio di trasformazioni repentine: superato il valore di 0,5 dell’indice di aridità, il suolo subisce un’accelerazione nella perdita di fertilità; arrivato a 0,7, perde struttura e diventa vulnerabile all’erosione; oltre lo 0,8, il sistema collassa, le piante non riescono più a crescere e il territorio si trasforma in deserto. Secondo un recente studio pubblicato su Science, il 20% della superficie terrestre supererà almeno una delle tre fatidiche soglie entro il 2100.
Per quanto, invece, riguarda il danno già fatto, l’estensione globale dei terreni degradati è incerta: la stima delle Nazioni Unite varia tra 1 miliardo e 6 miliardi di ettari. Il perché di una forbice così ampia è da ricercare nella difficoltà delle misurazioni. “La degradazione del suolo è data da una combinazione di fattori come l’erosione dovuta al vento e all’acqua, la salinizzazione causata da pratiche agricole non sostenibili, o il consumo di suolo e l’impermeabilizzazione, fattore particolarmente critico in Europa - spiega a MR Pandi Zdruli, ricercatore del CIHEAM di Bari, tra gli autori del World Atlas of Desertification – Una mappatura richiede dunque che ogni fattore venga monitorato separatamente e poi inserito in mappe aggregate. Per farlo, si combinano tecnologie di rilevamento remote con verifiche dei dati sul campo”.
Fra territori già degradati e altri soggetti a processi di desertificazione, le Nazioni Unite calcolano comunque che la sussistenza di oltre 1 miliardo di persone in un centinaio di paesi sia a rischio, con conseguente (e immaginabile) corollario di effetti a catena quali insicurezza alimentare, perdite economiche, migrazioni, conflitti. Per questo il contrasto alla degradazione del suolo è entrato negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (il punto 3 dell’SDG n.15, per la precisione) e nell’Agenda 2030 è stato inserito il raggiungimento della Land Degradation Neutrality, cioè “la condizione in cui la quantità e qualità delle risorse del suolo necessarie a supportare i servizi ecosistemici e a garantire la sicurezza alimentare rimangano stabili o migliorino nel tempo”. Al momento sono 120 i Paesi che hanno sottoscritto l’impegno, compresi quelli dell’Unione Europea.
Cosa succede in Europa
“La desertificazione in Europa avanza inesorabile. Il rischio è particolarmente serio nel Portogallo meridionale, in alcune aree della Spagna e dell’Italia meridionale, nel sud-est della Grecia, a Malta, Cipro e nelle zone che costeggiano il Mar Nero in Bulgaria e Romania. Alcuni studi hanno segnalato che queste aree presentano spesso erosione, salinizzazione, perdita di carbonio organico nel suolo, perdita della biodiversità e smottamenti”. La denuncia non arriva da un’associazione ambientalista, ma dalla Corte dei Conti Europea, che a fine 2018 ha pubblicato un rapporto speciale dal titolo piuttosto diretto: “Combattere la desertificazione nell’UE, di fronte a una minaccia crescente occorre rafforzare le misure”. Come a dire: non stiamo facendo abbastanza.
Dopo il 2000, l’Agenzia Europea per l’Ambiente aveva avviato un progetto di monitoraggio del problema: il DISMED, Desertification Information System for the Mediterranean. I dati raccolti fino al 2008 stimavano l’esistenza di aree con un’elevata sensibilità alla desertificazione in 14 Paesi europei, per una superficie complessiva di 234mila km2. Una decina di anni dopo, nel 2017, quei dati sono stati aggiornati e la situazione, come si legge nella relazione di Rachele Rossi del Research Service del Parlamento Europeo, è decisamente peggiorata: le zone ora considerate a rischio alto o molto alto coprono un totale di 400mila km2, con un hotspot in Spagna (240mila km2, praticamente la metà del territorio nazionale) e un’estensione delle zone sensibili in Grecia, Bulgaria, Italia, Romania e Portogallo.
Le cause sono molteplici, ma è già la conformazione del territorio che rende l’area mediterranea particolarmente predisposta. “La regione è caratterizzata da un suolo fragile, spesso in pendenza, così da essere per natura soggetto alla degradazione - spiega il professor Zdruli – Ma certo le cause antropiche, come deforestazione, sovrappascolo, incendi boschivi e urbanizzazione, aumentano molto il rischio”. E poi c’è il clima. “Gli scenari relativi ai cambiamenti climatici indicano una vulnerabilità crescente, nel corso del secolo, alla desertificazione nell’UE, con un incremento della temperatura e della siccità e una diminuzione delle precipitazioni nel sud dell’Europa”, scrive la Corte dei Conti. “L’intensificarsi di periodi secchi alternati a piogge sempre più violente non fa che peggiorare la situazione. - aggiunge Francesco Sottile di Slow Food Italia - Un terreno, magari già provato dalla siccità, non riesce ad assorbire 50 mm di pioggia che cade in poche ore. La violenza delle precipitazioni, inoltre, contribuisce all’erosione, portando via la parte superficiale più fertile del suolo”. Oltretutto, quello tra desertificazione e clima è un rapporto di reciproca e deleteria influenza: più aumentano le temperature, più il terreno si degrada e la vegetazione si dirada; il suolo perde così la capacità di sequestrare CO2 dall’atmosfera e la sua funzione mitigante rispetto al surriscaldamento climatico. Insomma, un circolo vizioso.
La parte dell’agricoltura
In questa situazione l’agricoltura ha parecchie responsabilità. “L’utilizzo di pratiche non sostenibili come l’irrigazione con acque di bassa qualità che causano salinizzazione del terreno, l’abuso di fertilizzanti chimici, antibiotici, plastiche non fanno che aggravare il degrado del suolo”, continua Zdruli. Se le battaglie per metodi più sostenibili si combattono in genere contro pesticidi e altri aiuti chimici, la parte meccanica del lavoro agricolo è forse ancora più dannosa per quanto riguarda la desertificazione.
L’aratura, ad esempio, è un metodo particolarmente invasivo, come spiega Francesco Sottile, “perché porta lo strato di terreno più fertile in profondità e quello meno fertile in superficie”. C’è poi il problema della compattazione del suolo, causata principalmente dall’uso di macchine agricole. “In pratica, la terra viene schiacciata, formando sotto la superficie uno strato compatto che non fa passare l’acqua, né verso l’alto né verso il basso, blocca la penetrazione delle radici e può causare ristagni idrici in caso di forti piogge”.
“Sono tutte tecniche usate dall’agricoltura industriale che si aiuta con la chimica e che quindi non ha grandi preoccupazioni circa il mantenimento della fertilità del terreno. - precisa Sottile – Noi di Slow Food lo chiamiamo il nostro land-grabbing: portare al massimo lo sfruttamento del suolo senza curarsi di chi lo erediterà e dovrà coltivarlo in futuro”.
Un processo irreversibile?
“Il suolo è una cripto-risorsa, una risorsa che non si vede. Oltre al cibo, fornisce una serie di preziosi servizi ecosistemici come la purificazione delle acque, la regolazione del clima, la riduzione dei contaminanti, il ciclo dei nutrienti. Eppure – si lamenta Carmelo Dazzi -, a parte gli addetti ai lavori, nessuno si preoccupa della sua salute e della sua conservazione”. Cominciare allora a considerare il suolo, come si sta facendo, una risorsa non rinnovabile (per formarne uno strato di soli 10 cm ci vogliono 2000 anni) forse aiuterà a prendere più sul serio la sua protezione.
A partire dalle pratiche agricole. “Serve implementare pratiche come la rotazione delle colture, la coltivazione biologica, la lavorazione senza o con minima aratura, l’agricoltura climate-smart – precisa Zdruli – Ma perché vengano applicate sul serio, bisogna che gli agricoltori siano supportati da un quadro di politiche a vari livelli”. “È necessario un cambiamento radicale verso un’agricoltura conservativa - commenta Damiano Di Simine di Legambiente - A questo mira la campagna ‘Cambiamo Agricoltura’ di cui, con varie altre associazioni e ong europee, siamo promotori per influire sulla Politica Agricola Comune”. In assenza di una vera strategia europea per la protezione del suolo – ritirata definitivamente, dopo varie occasioni mancate, nel 2014 – è appunto sulla PAC che si concentrano oggi gli sforzi per prevenire degradazione e desertificazione. Nella speranza che una delle più importanti politiche comunitarie (che da sola assorbe il 40% dei fondi europei), recepisca la sfida climatica e ambientale ormai prioritaria per il futuro.
Ma per quanto riguarda i processi di desertificazione già arrivati a una soglia critica, è possibile tornare indietro? “L’irreversibilità è relativa, dipende da che prospettiva temporale ci diamo - osserva Di Simine - Il Sahara una volta era verde, le zone moreniche della Pianura Padana alla fine dell’ultima glaciazione erano deserti pietrosi. I processi possono essere reversibili, ma potrebbero servire migliaia di anni. E noi dobbiamo arrivare alla prossima cena…”.
Per approfondire: scarica e leggi il numero #31 di Materia Rinnovabile dedicato al suolo