Da modello tecnico per addetti ai lavori a idea (quasi) mainstream: in poco più di un decennio la narrazione dell’economia circolare ha conosciuto un’evoluzione impressionante. Ma quali sono oggi gli strumenti, i canali, la parole chiave per comunicare la transizione circolare? Quali gli errori più comuni e i messaggi più urgenti? Lo abbiamo chiesto a tre delle più importanti realtà internazionali nel campo della promozione dell’economia circolare.
Una nuova narrazione per una nuova economia
Il 2 settembre 2010 segna una svolta nella storia dell’economia circolare: è il giorno in cui un modello potenzialmente rivoluzionario, che fino ad allora era rimasto confinato ai tavoli degli addetti ai lavori, comincia il suo viaggio nell’immaginario contemporaneo. Quel giorno la velista inglese Ellen MacArthur, titolare per 4 anni consecutivi del record mondiale di circumnavigazione in solitaria e all’apice del successo, decide di lasciare il mare per dedicarsi a una nuova avventura. E lo annuncia al mondo con toni e parole che, più che a un tomo di economia, fanno pensare a una canzone di John Lennon: Imagine the endless possibility of the future / Imagine innovation and development / Imagine a system where stuff is made to be made again.
MacArthur racconta l’economia circolare. È la prima a farlo davvero e a rendersi conto che non si tratta semplicemente di un modello economico, ma di una rivoluzione sociale e culturale, che come tale non può fare a meno del più strategico degli alleati: la comunicazione.
Nell’arco di oltre un decennio molte cose sono cambiate. L’economia circolare è oggi sul punto di diventare un concetto mainstream, con tutti i vantaggi ma anche i rischi connessi. Se la semplificazione è a volte necessaria, la banalizzazione è però sempre in agguato; se l’appetibilità del modello per aziende e marketing è un punto a favore, bisogna tuttavia stare attenti a non cadere nel circular washing; se l’entusiasmo per nuove tecnologie e soluzioni è contagioso, è bene anche non perdere di vista il quadro generale e gli eventuali effetti collaterali. Addetti marketing e uffici stampa, influencer ed evangelist, fondazioni e think-tank internazionali, e naturalmente la stampa, specializzata e non, si trovano oggi a dover mantenere in equilibrio – chi più consapevolmente e chi meno – tutte le varie istanze. E oltre ai classici problemi di ogni comunicatore – la chiarezza, la coerenza, la ricerca di nuove narrazioni e nuovi canali per arrivare ai propri target – hanno in più una responsabilità tutta legata alle crisi del nostro tempo: l’urgenza del messaggio che portano.
Un decennio di comunicazione circolare: cosa è cambiato?
In principio era la linea: una freccia diritta che congiungeva la miniera alla discarica, senza ritorno. Poi qualcuno ha preso l’estremità di quella linea e l’ha curvata su se stessa, fino a chiudere il cerchio. A quella prima, intuitiva ma bidimensionale, rappresentazione del passaggio dall’economia lineare al modello circolare si sono in questi anni aggiunti svariati piani, profondità e sfumature. La percezione di un modello che sembrava riguardasse sono la parte finale del sistema economico, ovvero la gestione dei rifiuti, si è via via allargata fino a comprenderne tutti i livelli e tutti i settori. L’economia circolare sta diventando così una grande narrazione, che cambia con l’evolvere dei tempi.
“Lavoro nella corporate sustainability da quasi 10 anni e in questo lasso di tempo l'economia circolare (almeno come termine tecnico) è cresciuta da un'idea nascente fino a diventare una parte centrale della strategia di sostenibilità aziendale. È vero che gran parte del lavoro sulla sostenibilità che si faceva 10 anni fa aveva elementi di circolarità, ma ciò che è cambiato è la centralità del tema, che ora è legato ai rapporti ESG, agli obiettivi climatici e praticamente a qualsiasi altra iniziativa aziendale”. Jon Smieja, vice-presidente della sezione Circularity di GreenBiz e responsabile della più importante conferenza sull’economia circolare del Nord America, parla da un osservatorio privilegiato. La media company americana sin dal 1991 lavora infatti come catalizzatore e cassa di risonanza per le innovazioni nel campo della green economy e ha potuto testimoniare lo spazio crescente della transizione circolare nella comunicazione rivolta a stakeholder e aziende.
Il verbo della circular economy non raggiunge, tuttavia, solo gli addetti ai lavori. “Il messaggio per fortuna comincia ad arrivare ai cittadini”, ci dice Ladeja Godina Kosir, fondatrice e direttrice della no-profit internazionale Circular Change, nonché entusiasta evangelist della transizione circolare. “C’è molta più comunicazione visiva rispetto a dieci anni fa e il tema viene oggi proposto dai media attraverso la moda, il design, l’architettura, rendendolo così più accessibile a tutti. Lo vedo ad esempio sfogliando riviste come Elle o Grazia, o i magazine delle compagnie aeree: fino a 5 o 6 anni fa nessuno proponeva articoli sull’economia circolare, mentre oggi se ne trovano in ogni numero”.
Anche per Laxmi Adrianna Haigh, co-autrice del Circularity Gap Report rilasciato annualmente dal think-tank Circle Economy, l’allargamento dell’audience è fondamentale. “Una delle evoluzioni più importanti nella comunicazione della circolarità è l’allontanamento dalla esclusiva visione tecnocentrica per lasciare un po’ di spazio al focus sociale. Non è un caso che Circle Economy porti avanti un programma chiamato Circular Jobs Initiative, in cui la transizione circolare viene analizzata e raccontata dal punto di vista degli impatti sul lavoro e sul benessere dei cittadini”. Come ricercatrice, Haigh riconosce poi un altro fondamentale miglioramento per la comunicazione circolare: l’approdo a punti di riferimento comuni. “Fino a solo 5 anni fa la situazione era piuttosto confusa, ci si lamentava spesso della mancanza di definizioni e della molteplicità di framework su cui lavorare. Ora finalmente abbiamo dei framework funzionali, come il diagramma a farfalla della Ellen MacArthur Foundation o lo schema a 4 flussi di Nancy Bocken, che ci permettono di comunicare in modo chiaro ed efficace. E sicuramente l’introduzione del nostro Circularity Gap, che consente di quantificare lo stato della transizione circolare a livello globale (siamo ad appena l’8,6%, ndr), è un grande passo avanti nel trovare dei riferimenti riconosciuti internazionalmente”.
Cerchio imperfetto
Se la perfezione del cerchio esiste solo nei libri di geometria, la circolarità è un processo che ad essa aspira correggendo via via la propria curvatura. E lo stesso si può dire della sua comunicazione, che impara man mano dagli errori commessi.
Tra i più comuni e persistenti, secondo Laxmi Haigh, c’è il focalizzarsi sul riciclo. “Molta gente è convinta che economia circolare sia sinonimo di riciclo – spiega - ma si tratta di un enorme equivoco. Il riciclo, nella gerarchia delle strategie circolari, è quella meno desiderabile. Bisognerebbe invece puntare di più sul problema del consumo eccessivo: se il consumo di risorse continua a crescere e crescere, tutte le strategie di efficienza che possiamo mettere in campo non saranno mai abbastanza per risolvere la crisi ambientale”. Altro punto dolente è la mancanza di un focus sociale, aspetto al quale, come si accennava sopra, si è cominciato a dare importanza solo di recente. “Si parla sempre di economia circolare in termini di flussi di materia, beni e servizi, – dice Haigh - mentre il discorso dovrebbe anche riguardare il modo in cui quei beni e servizi possono soddisfare i bisogni delle persone e contribuire alla costruzione di una società più equa”.
Terzo grande problema è l’eurocentrismo. Che l’Europa abbia cominciato prima e sia più avanti, soprattutto da un punto di vista legislativo, è innegabile, ma quella europea non è certo l’unica via alla transizione circolare. “È ora di ampliare la visione – aggiunge Haigh – Ci sono organizzazioni come Chatham House che stanno facendo un ottimo lavoro in questo senso. E noi di Circle Economy abbiamo ad esempio pubblicato un report sugli effetti, anche negativi, che le politiche europee sull’economia circolare possono avere sul resto del mondo. Non sono questioni facili da affrontare, ma è bene che se ne parli”.
La “bolla”cognitiva europea preoccupa anche Ladeja Kosir, che vede invece i vantaggi che si avrebbero nel lasciarsi ispirare dalle soluzioni “dal basso” adottate nei Paesi in via di sviluppo. “È arrivato il momento di scendere dal nostro trono – osserva – Dobbiamo cominciare ad essere un po’ più umili e aperti a ciò che possiamo imparare da Paesi e popoli meno privilegiati”.
Uscire dall’eurocentrismo, liberarsi del tecnocentrismo e abbandonare la prospettiva puramente economica: rimediare agli errori del passato significa dunque portare la comunicazione dell’economia circolare verso una narrazione più inclusiva. Un allargamento del punto di vista su cui insiste, in un senso ancora diverso, Jon Smieja. “Per me – ci spiega – è fondamentale scrivere di casi studio e innovazioni circolari, ma è un errore comune non riuscire a collegare la singola storia al sistema. Nessuna innovazione circolare si regge da sola al di fuori del sistema. E siccome la transizione circolare richiede un cambiamento sistemico, è sempre fondamentale riportare qualsiasi caso studio si racconti al quadro generale”.
The next big story
La narrazione dell’economia circolare è dunque un’architettura complessa, refrattaria ai facili slogan e bisognosa di profondità. Quello che viviamo è tuttavia un tempo di urgenze: la crisi climatica, quella geopolitica e quella economica incombente rendono sempre più pressante la transizione a un nuovo modello su scala globale. Quali sono allora i messaggi che chi comunica la circolarità mette al primo posto nella scala delle priorità?
Per Ladeja Kosir c’è innanzitutto un appello al dialogo e alla collaborazione: “Nessuno – commenta - è abbastanza intelligente e preparato per vincere da solo le sfide che abbiamo di fronte, nessuna soluzione, per quanto brillante ed efficace, basta da sola. Abbiamo davvero davvero bisogno di scambio di conoscenze e competenze e di cooperazione.”
Di collaborazione parla anche Jon Smieja, riferendola più nello specifico ai comparti industriali: “Per costruire le infrastrutture e scalare le soluzioni necessarie allo sviluppo dell'economia circolare, avremo bisogno di una collaborazione tra i settori dell’industria come non c’è mai stata prima. Nessuna azienda, non importa quanto grande, può farcela da sola”. Per Smieja è inoltre fondamentale far capire che ci troviamo in una situazione assolutamente inedita: “Dobbiamo disimparare ciò che sappiamo sull’economia – ci dice provocatoriamente - Nessuno di noi (con eccezioni molto limitate) ha mai vissuto in un'economia diversa da quella lineare. Perciò abbiamo ora bisogno di essere creativi e uscire dalla nostra comfort zone”.
Secondo Laxmi Haigh, infine, è urgente rivolgersi ai decisori politici, “che ancora non hanno ben capito quanto possa essere rilevante l’economia circolare per raggiungere i loro obiettivi sociali, ambientali e climatici”. “Il Circularity Gap – aggiunge – mostra chiaramente quanto le emissioni climalteranti siano legate al consumo di risorse e come un approccio circolare abbia il potere di ridurle. L’economia circolare è insomma uno strumento imprescindibile nella lotta alla crisi climatica”.
Crisi climatica che, come si dice in ambiente giornalistico, è la più grande storia del nostro tempo - the biggest story of our time: una storia drammatica, che molti ora non vogliono più ascoltare perché genera ansia, paura e fa sentire impotenti. Allora proviamo a raccontarne un’altra di storia. Una possibile e positiva, “gioiosa”, come dice Ladeja Kosir con il suo contagioso ottimismo: una storia che parli di soluzioni, di armonia e di empowerment. Facciamo dell’economia circolare la prossima più grande storia del nostro tempo.
Immagine: Jason Leung (Unsplash)
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