Il clima torna in piazza. Al motto di “People Not Profit”, i ragazzi di Fridays For Future hanno indetto oggi, 25 marzo, il primo vero sciopero globale (quasi) post pandemia. Questa volta però l’obiettivo della mobilitazione non è una generica “sveglia” per contenere le emissioni e il riscaldamento globale, ma si concentra su un tema ben preciso e purtroppo sempre rinviato e trascurato in ambito di negoziati sul clima: i risarcimenti per i paesi e le comunità più vulnerabili e in genere anche meno responsabili per gli effetti del cambiamento climatico. Giustizia climatica, insomma. Perché - nonostante la pandemia, nonostante la guerra - l’orologio del clima che cambia non si arresta e per centinaia di milioni di persone l’adattamento sarà questione di vita o di morte.
Noi intanto abbiamo fatto il punto su clima, adattamento, transizione energetica e crisi internazionale con il
climatologo Stefano Caserini, autore di Il clima è (già) cambiato.

Caserini stefano

Vorrei partire da una notizia di qualche giorno fa, passata quasi inosservata: in Antartide si sono registrate temperature di 40 gradi superiori alla media stagionale. Suona inquietante. Come dobbiamo leggere questo dato?
Va detto che all'interno della modifica del clima globale ci sono delle variazioni a volte casuali, fenomeni inaspettati e di breve durata. Si può trattare di variazioni delle temperature molto accentuate sia in senso positivo, come in questo caso in Antartide, o al contrario, come avviene talvolta sulla costa est degli Stati Uniti, di cold spell, cioè fenomeni di raffreddamento legati alla circolazione artica che si sposta. Fenomeni come quello registrato in Antartide sono sicuramente dei campanelli d'allarme, ma per l'Antartide il vero problema è in realtà la lenta riduzione dei ghiacci: qualcosa di meno appariscente e di cui adesso parlano solo gli scienziati, che però può diventare devastante.
Ad esempio un paio di mesi fa il glaciologo Marco Tedesco ha scritto un articolo che è passato abbastanza inosservato, ma che se letto con attenzione suona terrificante. Secondo gli ultimi monitoraggi sullo stato del ghiacciaio Thwaites in Antartide, ci sono delle possibilità che la destabilizzazione di questa enorme calotta glaciale, grande quanto la Gran Bretagna, faccia innalzare il livello del mare di 65 centimetri in soli 5-10 anni: in pratica l’innalzamento atteso per il 2100 si verificherebbe nel giro di un decennio. Questo cambierebbe totalmente la prospettiva anche per le possibilità di adattamento.

A proposito di adattamento, il 28 febbraio è uscito il secondo volume del VI rapporto IPCC dedicato appunto all'adattamento climatico. Tra i vari punti di preoccupazione, uno in particolare, sottolineato anche nel discorso del segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, riguarda gli investimenti insufficienti per aiutare i Paesi più vulnerabili agli effetti del clima. Non a caso, lo sciopero globale indetto da Fridays For Future il 25 marzo ha questa volta un obiettivo molto preciso: la giustizia climatica. Ci arriveremo mai ad affrontare sul serio questo tema cruciale?
Non so se ci arriveremo mai... Quello che posso dire è che sicuramente questi ragazzi dimostrano di avere molto chiare le questioni centrali del problema del cambiamento climatico e dedicare la manifestazione a questo tema è un segno di maturità. Certo in questo momento storico, con la guerra e la crisi internazionale, non è facile avere fiducia in un quadro multilaterale che aiuti la vera giustizia climatica. Però quello che si può dire è che il problema è delineato bene e il rapporto dell'IPCC ci mostra in modo a volte fin troppo pignolo la vastità degli impatti che riguardano il Sud del mondo, che, a cominciare dalla scarsità d'acqua, sono spaventosi.
Lo stesso Guterres nel suo discorso ha detto che non aveva mai visto un rapporto come questo.
L’adattamento è perciò una questione di vita o di morte per molte persone. La speranza è che ci sia in
ambito UNFCCC una maggiore quantità di finanziamenti per aiutare i paesi del Sud del mondo e soprattutto che si trovi il modo di spenderli correttamente. Il problema infatti non è solo mettere i soldi a disposizione, ma avere anche delle infrastrutture e degli organismi che riescano a veicolare questi fondi in azioni efficaci di adattamento e mitigazione, evitando il rischio che vadano a finire in armi o a finanziare le élite al potere.

Ai primi di aprile uscirà il terzo volume del rapporto IPCC, questa volta dedicato alla mitigazione. Lei è stato uno dei revisori: ci può anticipare qualcosa?
Be’, non posso anticipare quello che ci sarà nel rapporto... Ma posso dire che i rapporti IPCC riassumono la letteratura scientifica e dalla letteratura scientifica emerge chiaramente che è possibile ridurre le emissioni per rispettare gli obiettivi dell'Accordo di Parigi. È difficile, ma non impossibile. Richiede dei cambiamenti radicali negli investimenti e nelle priorità della politica, ma non è qualcosa che appartiene al mondo dei sogni e quindi rimane un'aspirazione velleitaria. Sono cose che si possono fare o non fare, a seconda di quanta importanza si attribuisce al tema della giustizia climatica e al tema dei diritti delle generazioni future. Certo se si guarda al business e si ha come primo obiettivo la difesa degli interessi a breve termine dell’industria dei combustibili fossili, se si rimane intrappolati nelle logiche di un’economia misurata solo sulla base del Pil, allora non ci sarà spazio per la transizione che ci serve. Sono necessarie delle scelte politiche.
Ad esempio, sapevamo già in Italia di avere un
problema di dipendenza dal gas, ma è stato comunque deciso di investire ancora di più nel gas fossile e rallentare lo sviluppo delle rinnovabili. Ci sono delle responsabilità che hanno nomi e cognomi, governi e ministri che hanno fatto queste scelte. Adesso sembra che i ritardi si siano generati da soli e che le scelte di politica energetica, sbagliate, fossero invece inevitabili. Capisco perfettamente questi giovani quando chiedono di cambiare una classe dirigente che si è dimostrata inadeguata a gestire il problema del cambiamento climatico.

Parlando di scelte energetiche a livello europeo, cosa pensa dell’inserimento del nucleare all’interno della tassonomia per gli investimenti verdi?
È una distrazione. Il nucleare se lo terrà chi già lo ha, come la Francia e la Cina. Nell'economia di mercato occidentale e anche per l'Italia non ha senso pensare a uno sviluppo del nucleare che sia utile per questa transizione, che va fatta in vent'anni. Sono gli stessi promotori dell’energia nucleare o della fusione nucleare a dire che prima di vent'anni non se ne parla di avere reattori su scala commerciale. Figuriamoci perciò se il nucleare potrà essere competitivo con un sistema di rinnovabili - eolico e solare in primis - che se già oggi è più conveniente, sarà ancora meno costoso fra vent'anni.
Le proiezioni che abbiamo a disposizione, fra cui quella dell'Agenzia Internazionale per l'Energia, non vedono un ruolo decisivo del nucleare nella transizione energetica, come invece lo hanno sole e vento. Che tra l’altro hanno anche meno problemi legati all’approvvigionamento o ad eventuali attacchi terroristici.
Insomma
il nucleare è un modo per spostare l'attenzione. In questo sta l’errore strategico del ministro Cingolani, nel dare l’illusione che ci sia una bacchetta magica per metterci al riparo dai problemi che abbiamo. La realtà è che la transizione la faremo con l'efficienza energetica, con il sole e con il vento: queste sono le tre principali innovazioni, decise anche dal mercato.

Quali sono le conseguenze che la guerra in Ucraina e la crisi internazionale avranno e stanno già avendo sull'azione climatica e sulla transizione?
Non è facile da capire. Sicuramente c'è un indebolimento del sistema multilaterale, che nell’UNFCCC trova un momento importante di incontro fra diverse posizioni per tentare di avere un'azione comune sul clima. D'altra parte però ci sono chiari segnali che questa guerra e la crisi energetica che ne sta derivando, con il conseguente aumento dei prezzi, sta spingendo ancora di più le rinnovabili. Diversi osservatori segnalano che il conflitto in Ucraina potrebbe portare ad accelerare ancora di più la transizione energetica. Sapevamo già di doverci sbarazzare del gas, ma questa guerra è un continuo campanello d'allarme che ci dice di affrettarci. Certo non è facile sostituire subito tutto il gas russo, ma la direzione da seguire è chiara.

Si parla però nel frattempo di riaprire le centrali a carbone…
Sì, ma sarà una cosa transitoria. A meno che non si sospenda il sistema di Emission Trading europeo, le centrali a carbone a livello economico non sono sostenibili. C’è un tetto alle emissioni annuali consentite in Europa, per cui le centrali a carbone ruberebbero più spazio all’industria dell’acciaio, del cemento, agli impianti a gas, eccetera, e il prezzo della CO2 aumenterebbe. Già oggi il prezzo è in aumento: siamo passati nell’ultimo anno da 40 a 80 euro a tonnellata, un costo che mette fuori mercato il carbone. È chiaro che se non si ha niente per produrre energia, allora si usa anche il carbone, Ma il segnale chiaro di questa crisi è che se ne esce con il sole e con il vento e con l’apporto di poche altre energie rinnovabili.

Uscendo un attimo dalla questione puramente energetica, vorrei farle una domanda: perché ai negoziati sul clima si parla così poco di economia circolare, che pure potrebbe dare un grande apporto all’azione climatica?
Il punto è che la CO2, a cui si deve l'80% del problema del riscaldamento globale, è generata per la maggior parte dalla combustione dei combustibili fossili. Insomma, le emissioni di CO2 sono dovute per la quasi totalità alla produzione di energia e alla produzione di cemento e acciaio. Per questo il cuore della questione è smettere di utilizzare i combustibili fossili. Poi sicuramente una parte delle soluzioni possono essere legate all’utilizzo dei materiali e alla riduzione del loro consumo. Ma la questione climatica è fondamentalmente il produrre energia in modo diverso.

Certo, però l’economia circolare implica un vero e proprio cambio di paradigma economico che non viene mai affrontato direttamente ai tavoli sul clima. Così come, ad esempio, non viene affrontato il tema della plastica, che comunque deriva da fonti fossili…
Ma perché la plastica, alla fine, è un modo per stoccare carbonio. Se il petrolio, cioè, si utilizza per fare un manufatto di plastica che poi rimane in discarica, quel carbonio, se non degrada, sarà stato separato per sempre dall'atmosfera e quindi dal punto di vista del cambiamento climatico non costituisce un problema. Poi possiamo elencare tutti i motivi per cui questo non vada fatto, ma lo stoccaggio del carbonio in manufatti di legno o di plastica è un modo per evitare di immettere la CO2 in atmosfera.
Tornando ai tavoli sul clima, quando mi dicono che nell’Accordo di Parigi mancano una sacco di temi, devo far presente che si tratta solo di 30 pagine e non ci può di sicuro essere tutto: si punta molto concretamente sulle cose principali, ovvero sulla transizione energetica. E del resto, per essere esaustivi in materia di cambiamento climatico ci vorrebbe un’enciclopedia!

Un’ultima domanda. Uno dei problemi della crisi climatica è tenere viva l’attenzione dei media. Ma ultimamente, prima con il Covid e ora con la guerra in Ucraina, il clima passa sempre in secondo o terzo piano. Cosa ne pensa?
Be’, è comprensibile che oggi l’attenzione dei media sia concentrata su una tragedia così devastante e anche pericolosa come la guerra in Ucraina. La guerra è una catastrofe cataclismatica che da un giorno all'altro può portare una distruzione enorme. Il cambiamento climatico è invece una catastrofe “al rallentatore”, e per questo i media per molto tempo l'hanno ignorata e anche adesso fanno fatica a parlarne: il ghiacciaio Thwaites che si scioglie non è “sexy”…
Ovviamente una guerra, e anche una pandemia, catturano molto di più l’attenzione. Ma comunque il cambiamento climatico è sempre lì e a luglio vedremo quanto se ne parlerà. Anzi, l’augurio è che a luglio si torni a parlare più di clima che di guerra.

Immagine: Australia, marcia per il clima 2019 (Shutterstock)