Utilizzare i funghi e le loro straordinarie qualità per “coltivare” i materiali da costruzione e degradare gli inquinanti: è questa la visione alla base di molte ricerche, che presto potrebbero portare ad applicazioni concrete. E dare una dimensione davvero “biologica” alla circolarità.

Alieni tra noi, e in noi. Onnipresenti, eppure ancora in gran parte sconosciuti. Architetti della vita sulla Terra, di cui però ignoriamo e abbiamo per molto tempo sottovalutato la reale e misteriosa influenza.
I funghi sono letteralmente ovunque: dagli invisibili lieviti e muffe, che colonizzano il nostro stesso corpo, alla tentacolare Armillaria ostoyae, il più grande organismo vivente mai scoperto, che si estende per quasi 10 chilometri quadrati tra le montagne e i boschi dell’Oregon. Possono vivere sulle rocce, nei fondali marini, nei deserti, in mezzo al ghiaccio artico, sulle foglie degli alberi o nelle viscere degli animali. Le stime sul numero di specie esistenti variano tra i 2 e i 5 milioni, ma Paul Stamets, il guru americano della micologia, parla addirittura di 10 milioni. Eppure ne conosciamo (e neanche tanto bene) appena 120mila. Del resto, quando si tratta del regno dei funghi, anche mettersi d’accordo sulla classificazione diventa arduo: basti pensare che solo la specie del Pleurotus ostreatus (il comune fungo del legno o fungo ostrica) contiene al suo interno migliaia di ceppi che differiscono geneticamente tra loro del 12%, quando la differenza genetica tra uomo e scimpanzé è appena del 2%.
Per farla breve,
circa il 95% delle specie fungine è attualmente un universo sconosciuto. Ed è inquietante, oltreché strabiliante, l’analogia con lo stato della ricerca della fisica moderna, che descrive l’Universo come composto per il 95% da “materia oscura” ed “energia oscura”. Secondo Merlin Sheldrake, giovane biologo autore del bestseller mondiale L’ordine nascosto (Entangled life), con i funghi e i microrganismi entriamo nel dominio della “materia biologica oscura o della vita oscura”.

Il micelio e l’internet delle foreste

In tanta oscurità, qualcosa però sui funghi lo abbiamo capito e qualcos’altro di straordinario abbiamo cominciato a intuirlo di recente.
Innanzitutto è bene fare una distinzione: quello che nell’immaginario comune è il “
fungotout court, nella realtà è solo il suo corpo fruttifero, cioè il mezzo con cui vengono prodotte le spore attraverso le quali l’organismo fungo si riproduce e si diffonde. Il frutto è solo una parte di una struttura più grande e complessa fatta da reticoli di cellule detti ife, lunghi filamenti che si intrecciano e si fondono tra loro formando quello che è il vero e proprio corpo del fungo: il micelio. “Il micelio – osserva Sheldrake - andrebbe pensato più come un processo che come una cosa in sé, la rappresentazione concreta della caratteristica principale dei funghi: la tendenza a esplorare e a proliferare”. E infatti attraverso i reticoli miceliari i funghi viaggiano, si espandono, creano connessioni, trasportano acqua, nutrienti e, si comincia a pensare, persino informazioni. I primi a parlare di wood wide web, a metà degli anni Novanta, sono stati i biologi David Read e Suzanne Simard, partendo da alcuni esperimenti sui reticoli micorrizici condivisi tra funghi e piante nelle foreste. Le micorrize – termine che deriva dalle parole greche “fungo” e “radice” - sono l’esempio perfetto di relazione mutualistica in natura, di simbiosi.
Quella tra piante e funghi è una storia di collaborazione antica quasi quanto la vita sul pianeta:
le piante, infatti, uscirono dall’acqua 500 milioni di anni fa grazie alla collaborazione dei funghi, che si prestarono come sistemi radicali finché i vegetali non ne svilupparono di propri. Oggi il rapporto di cooperazione continua: i funghi prendono dagli alberi il carbonio prodotto in forma di glucosio grazie alla fotosintesi, mentre gli alberi ottengono nutrienti come il fosforo e l’azoto, che i funghi assorbono dal terreno grazie ai loro specifici enzimi. Ma lo scambio, pare, non finisce qui. Secondo Sheldrake e colleghi abbiamo appena cominciato a intuire le possibilità e le funzioni dell’internet delle foreste e più in generale delle reti miceliari, che sembrano in grado di condurre veri e propri “messaggi” sottoforma di sostanze chimiche (infochimici) o impulsi elettrici, ad esempio per dare l’allerta sull’infestazione di un determinato parassita. C’è chi addirittura, come Paul Stamets, ipotizza che la rete fungina sotterranea funzioni da sistema immunitario del pianeta (e quindi anche nostro). Il che ci fornisce un altro buon motivo per impegnarci a non distruggere gli ecosistemi.

L’arte del metabolismo

Se la comprensione dei super-poteri connettivi dei funghi è solo all’inizio, conosciamo invece un po’ meglio le loro prodezze metaboliche. “Il metabolismo è l’arte della trasformazione chimica - scrive Sheldrake - e i funghi sono maghi del metabolismo in grado di esplorare, rovistare tra i rifiuti e recuperare sostanze utili in modi ingegnosi”. È grazie a questa loro capacità che si possono definire veri e propri architetti di ecosistemi. Tornando allo stabilirsi della vita sulla terraferma, ad esempio, furono i licheni – un’associazione di funghi con alghe o batteri – che “digerendo” la nuda roccia la trasformarono in humus, creando di fatto il sostrato di nutrimento per le piante.
L’abilità trasformativa è ciò su cui puntano oggi molte ricerche applicative sui funghi, come quelle seguite dal
Fungal Group della facoltà di Microbiologia di Utrecht, coordinato dal professor Han Wösten. Uno dei filoni più promettenti riguarda la depurazione delle acque di scarico. “Sfruttiamo gli stessi enzimi con cui i funghi riescono a degradare la lignina, che oltre ad essere per quantità il secondo biopolimero più diffuso sulla Terra dopo la cellulosa, è anche uno dei più difficili da decomporre. - spiega WöstenQuesti enzimi, che letteralmente bombardano la lignina per scomporla, possono fare lo stesso con altre sostanze come gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) alla base di prodotti chimici industriali quali pesticidi, coloranti, prodotti farmaceutici o per la cura della persona e ormoni steroidei. Gli impianti di trattamento dei reflui oggi in uso non sono in grado di degradare efficacemente questi microinquinanti, che così finiscono nei fiumi, con gravi rischi per la salute e gli ecosistemi”. Al momento la ricerca è ancora in fase sperimentale: Wösten e i suoi collaboratori stanno cercando di arrivare alla degradazione completa delle molecole, per evitare qualsiasi rifiuto tossico alla fine del processo. Ma le prospettive di applicazioni pratiche sono vaste ed esaltanti.

Refrattari all’agricoltura industriale ma amici della circolarità

Le abilità metaboliche dei funghi sono comunque già ampiamente sfruttate, anche se la cosa non è molto pubblicizzata. Si pensi ad esempio all’acido citrico, usato nella maggior parte delle bibite industriali, compresa la più famosa di tutte: “Non deriva certo dai limoni siciliani – dice Wösten – ma è sintetizzato a partire da enzimi dei funghi”. Così come circa il 60% degli enzimi usati dall’industria mondiale per produrre detergenti, additivi, persino le sostanze che si usano per decolorare i jeans con effetto “stone-washed” (“non si fa davvero con le pietre”, precisa Wösten). Poi c’è il grande capitolo dell’industria farmaceutica, che dalla penicillina in avanti ha fatto grande affidamento sui funghi. Solo per i vaccini, “il 15% deriva da ceppi di lieviti modificati in laboratorio”, scrive Sheldrake. E, ancora, ci sono gli immunosoppressori per impedire il rigetto nei trapianti, le statine per tenere sotto controllo il colesterolo, vari composti antivirali e antitumorali e la psilocibina, il principio attivo contenuto nei cosiddetti funghi psichedelici, di recente sdoganato da alcuni studi clinici che ne hanno dimostrata l’efficacia nella cura della depressione e dell’ansia. Se il mercato dei funghi medicinali cresce di anno in anno, c’è poi naturalmente anche quello dei funghi edibili (compresi i lieviti per la fermentazione), il cui valore, stimato intorno ai 42 miliardi di dollari nel 2018, si proietta verso i 69 miliardi al 2024.
Eppure, nonostante l’industria multi-miliardaria che muovono, i funghi rimangono dei ribelli, refrattari a farsi incanalare in processi su larga scala. “Sono molto poche le specie che attualmente riusciamo a coltivare – spiega Wösten – La maggior parte non crescono in cattività, come ad esempio i porcini: ecco perché continuiamo a raccoglierli nei boschi. Il punto è che ancora non conosciamo esattamente il processo e le condizioni che fanno sì che un organismo fungino a un certo punto fruttifichi. All’Università di Utrecht studiamo anche questo, così da riuscire a ottimizzarne la produzione”. Ci si può chiedere, a questo punto, se un’ipotetica produzione su grande scala di funghi non rischi di ricadere nelle stesse logiche di insostenibilità dell’agricoltura industriale. Ma il professor Wösten ha molta fiducia nelle competenze fungine in campo di economia circolare. “La buona notizia – dice - è che per coltivare i funghi si possono usare materie di scarto, come paglia di bassa qualità non adatta a diventare mangime, letame di cavallo o altri tipi di rifiuti non riutilizzabili. Flussi di materia di bassa qualità vengono così trasformati in cibo di alta qualità, visto che i funghi non solo sono buoni, ma contengono proteine, minerali, vitamine e attivano il sistema immunitario”. Altro aspetto positivo è che crescono anche su terreni poco fertili o degradati, non hanno bisogno di fertilizzanti e, anzi, rigenerano il suolo. “Il micelio ‘colonizza’ la paglia su cui lo facciamo crescere e, una volta raccolti i frutti, questo materiale diventa un ottimo compost per nutrire la terra. Che del resto - conclude Wösten – è il lavoro che i funghi fanno in natura, biodegradando gli alberi morti e producendo nutrienti per l’ecosistema”.

Coltivare materia: il Growing Design

Se dalle proprietà chimiche, metaboliche e nutrizionali dei funghi si passa alle loro abilità di costruttori, le prospettive che si aprono diventano fantascientifiche. Lo sa bene Maurizio Montalti, che nel suo laboratorio Officina Corpuscoli ad Amsterdam e con la startup Mogu a Varese, ha avviato quello che definisce un “rapporto di collaborazione” con il micelio per coltivare i materiali del futuro.
Il suo lavoro, al crocevia fra ingegneria, design e microbiologia, è nato più di dieci anni fa nei laboratori del professor
Wösten a Utrecht. “Han fu uno dei pochi che mi prese sul serio e mi diede la possibilità di sperimentare le mie idee”, racconta. I due cominciarono quindi letteralmente a coltivare materiali facendo crescere i funghi su substrati di paglia e poi utilizzando la paglia “colonizzata” dal micelio come isolante termico, per sostituire ad esempio la lana di roccia. A seconda delle caratteristiche della specie di fungo, del substrato utilizzato, delle condizioni ambientali e di crescita date, si possono ottenere bio-materiali con caratteristiche analoghe alla plastica, alla gomma, al legno, alla carta, al sughero, al cuoio o al foam (polietilene espanso) usato per gli imballaggi. “Sky is the limit! Quando si ha a che fare con i funghi si può fare veramente di tutto”, dice Montalti. La ricerca va infatti avanti, ad Utrecht come ad Amsterdam, e ha trovato una prima applicazione commerciale (una delle pochissime al mondo) attraverso Mogu, che produce pannelli isolanti ed elementi per la pavimentazione fatti di micelio cresciuto su substrati di scarti agricoli o residui tessili, in perfetta ottica circolare.
Montalti ha battezzato questo processo
Growing Design, per sottolineare la radicale differenza di approccio rispetto al costruire e all’assemblare. “Qualcuno per provocarmi a volte mi chiede: ma chi è il designer, tu o il fungo? Onestamente devo rispondere che i designer sono i funghi. Io sono come il coreografo che dà la direzione, ma il lavoro lo fanno loro”. E quando parla di “collaborazione” non lo fa metaforicamente, intende esattamente quello che dice: sta in effetti proprio qui, in questa sorta di cooperazione inter-specie, la peculiarità dei materiali a base di micelio. “L’idea di coltivare – spiega - implica un rapporto di comunicazione e interazione reale con l’organismo non-umano con cui si collabora. Il materiale che si ottiene è vivo e racconta un processo di crescita. Niente a che vedere con i materiali inerti da cui siamo normalmente circondati, che non dicono nulla sulla loro origine”. Non si tratta, tuttavia, solo di una questione di sensibilità estetica. Un materiale vivo, come quello prodotto dalle sperimentazioni di Officina Corpuscoli, offre una serie di incredibili possibilità e funzionalità, come la capacità di auto-ripararsi e auto-rigenerarsi. O meglio, offrirebbe, visto che il mercato non è decisamente pronto per una tale novità. “Quello che faccio in sede sperimentale – racconta Montalti – è lasciare che il micelio si sviluppi sul substrato, crescendo in modo radiale; quando arriva al punto che voglio, blocco il processo cambiando le condizioni ambientali. Praticamente è come se ibernassi il fungo. Ma se ad esempio il pannello che ho ottenuto si rompesse in due, potrei ripristinare le condizioni di crescita e il micelio formerebbe una sutura. Il problema è che il mercato attuale non vuole materiali che non siano stabili e inerti. Vuole materiali morti, il che significa che per vendere i pannelli devo uccidere il micelio. Un dispiacere per me, e un peccato per le possibilità di cui ci priviamo”.
Ma se il mercato va lento, l
a visione di un mondo coltivato anziché costruito si allarga ad immaginare interi edifici fatti di materia vivente, che crescano e interagiscano con l’ambiente, trasformandosi nel tempo, invece di essere fabbricati, assemblati e dismessi. È questa l’idea di Fungal Architecture, progetto europeo in cui lo stesso Montalti è coinvolto con Mogu, che mira a costruire strutture monolitiche di micelio, capaci di reagire e adattarsi alle condizioni ambientali e agli inquinanti. Qualcosa che, del resto, esisteva già 400 milioni di anni fa, quando i Prototaxites, organismi fungini alti come palazzi di due piani, offrivano riparo a colonie di insetti. Palazzi viventi, insomma. Siamo pronti?

Scarica e leggi il numero 37 di Materia Rinnovabile sui sistemi alimentari.

Immagine: Mycelia, ph Maurizio Montalti